Oltre le controideologie rancorose
martedì 19 novembre 2019

Si dice che con il 1989 sono finite le ideologie. Ma non è così. Siamo pieni di ideologie. Il sovranismo è la controideologia del cosmopolitismo. Il populismo è la controideologia dell’elitismo. Il fondamentalismo è la controideologia del nichilismo. Ci troviamo di fronte a un movimento storico reattivo rispetto a un modello socio-economico che con la crisi del 2008 ha mostrato tutti i suoi limiti. Un modello che non solo non si può più aggiustare, ma che non è poi nemmeno troppo desiderabile.

In genere gli ultimi a riconoscere che un mondo non si regge più sono le classi dirigenti, fatalmente lontane dalla realtà. E così rischia di accadere oggi. Occorre cambiare paradigma. Evitando di essere gli ultimi difensori di un modello in via di disgregazione. E questa lunga crisi ci consegna almeno tre lezioni.

In primo luogo, conta la crescita ma conta anche chi siamo e dove andiamo. Cioè ciò che vogliamo essere e diventare nel mondo. L’identità può essere tradotta nel linguaggio della chiusura, dell’esclusione, della contrapposizione. Ma l’identità è prima di tutto una tensione, un desiderio, un dinamismo. Un senso. Sì, abbiamo bisogno di sapere chi siamo e cosa stiamo facendo. Dove stiamo andando. A chi parla dell’identità chiusa occorre rispondere con una idea di identità aperta, cioè vitale proprio perché capace di stare in dialogo con la realtà.

Una identità che esiste proprio in rapporto alle risposte che sa dare alle sfide del tempo. Non perdiamo la nostra identità a causa dell’arrivo dei migranti. Ma la possiamo rivitalizzare attraverso il modo in cui sapremo dare risposta a questa grande questione storica. Allo stesso tempo, la nostra identità si misura oggi con la sfida ambientale: come non capire che "chi siamo" dipende proprio dal come rispondiamo alla pesante eredità di un modello che distrugge il mondo e la persona?

In secondo luogo, il modello della crescita illimitata, della performance, della accelerazione produce scarti. Persone abbandonate al loro destino, interi territori esclusi dallo sviluppo, l’ambiente ridotto a discarica. La tesi secondo la quale aumentando la torta avremo più da dividere (il "partito del Pil") non è vera. La dimensione della torta conta e ci interessa. Ma conta soprattutto come è fatta, gli ingredienti usati, il come è trattato chi la fa. Come la si divide. Se e buona o cattiva. Come la si mangia insieme. Per una torta buona, occorre seguire un principio fondamentale: il criterio dell’avanzare è quello del più fragile che non va lasciato solo. Il popolo o è una carovana solidale o diventa una folla iraconda. Come vediamo con grande chiarezza nell’Italia e nell’Europa di oggi.

Infine, scienza, tecnica, progresso, crescita sono valori positivi. Ma non assoluti. E da soli non bastano. Servono anche umanità, solidarietà, giustizia, bellezza. La libertà non è un diritto individuale, ma un progetto comune. Una tensione da condividere. Mai pienamente raggiunta né raggiungibile. All’inizio del XXI secolo, occorre andare oltre il consumerismo, anche dei diritti. Imparando che la libertà ha a che fare con la responsabilità di ciò che 'portiamo a essere'. In relazione alle interpellazioni che sollecitano la nostra intelligenza e la nostra umanità. Superando l’autismo dell’io monade e l’autoreferenzialità dei sistemi tecnici. Dobbiamo imparare che la libertà è relazione.

Che è generativa. Per questo, se non vogliamo che ci sia l’odio al centro del prossimo decennio, dobbiamo parlare di una la libertà che si prenda cura. Delle persone, dei territori, dell’ambiente. Tutto ciò significa che al cuore di questa lunga transizione c’è l’idea di libertà. La parabola cominciata con gli anni 60 del Novecento volge al suo declino.

O la libertà è capace di fare un passo avanti o è destinata a collassare. Tornano in mente le parole di Nelson Mandela alla conclusione della sua autobiografia: «Non abbiamo compiuto l’ ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo su una strada che sarà ancora più lunga e più difficile; perché la libertà non è soltanto spezzare le proprie catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri. La nostra fede nella libertà deve essere ancora provata».

Ecco, anche noi siamo qui. Inutile nasconderselo: al fondo di questa crisi c’è una questione che è antropologica e spirituale. Se non se ne riconosce la portata, le controideologie rancorose prevarranno.

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