venerdì 31 gennaio 2020
Chi è andato presto a riposo lo ha fatto in forza di una legge e non può oggi tornare indietro. Piuttosto, ci si pensi per la trattativa in corso
«Tagliamo le baby pensioni». Non sarebbe giusto, ma sia di lezione

Ansa

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Gentile direttore,
si parla continuamente del problema “pensioni” e si dà per scontato che il rischio sia causato dalle future pensioni. È vero il contrario: il problema lo ha generato il passato. Io sono entrato nel mondo del lavoro a 20 anni e mi ritrovo oggi con 43 anni di contribuzione in quanto ho fatto l’autotrasportatore, il servizio militare di leva in Marina (che data la gravosità mi ha regalato 8 mesi in più, come pure il servizio ferroviario che mi ha regalato 15 mesi). A quei tempi, negli anni 70 del Novecento, nel pubblico impiego si andava in quiescenza anche con soli 9 anni 6 mesi e un giorno, oppure con 19 anni 6 mesi e un giorno e, in tal caso, si percepiva la “contingenza” per intero. Poi arrivò anche la “legge dei combattenti” che regalava 7 anni a chi faceva domanda (anche se non aveva combattuto... ). Per risolvere il problema basta dire ai sopracitati signori che d’ora in poi certe regalìe non potranno essere garantite e che sarà data pensione per l’effettivo versato... Duro, ma necessario. Proprio in questi giorni si è parlato dei 20 anni della morte di Bettino Craxi. Ricordo che durante il suo governo, ha lasciato il lavoro la più giovane pensionata d’Italia: 29 anni di età anagrafica!

Giorgio Paolinelli Ancona

Gentile signor Paolinelli, sollecitato dal direttore, le rispondo che non tutto ciò che appare razionale e lecito è in effetti realizzabile e giusto. Mi spiego: lei non ha affatto torto a sostenere che alcuni degli attuali problemi di sostenibilità del sistema previdenziale derivino da scelte sbagliate compiute in passato. Negli anni 60 e 70 del Novecento, infatti, gli alti tassi di sviluppo economico e un andamento demografico decisamente positivo indussero i legislatori a stabilire condizioni assai “generose” per il pensionamento di alcune categorie di lavoratori, in particolare quelli pubblici. Scelte che, già a pochi anni di distanza, si rivelarono molto onerose, tanto da portare i conti previdenziali fuori equilibrio. Esemplari le pensioni baby nel Pubblico impiego, quelle che permettevano appunto a un/una 35-40enne di andare in quiescenza dopo appena 19 anni, 6 mesi e un giorno di lavoro. Con l’attuale prospettiva di vita, si calcola che chi ne abbia usufruito negli anni 80 e 90 si trovi ancora oggi a ricevere una pensione che è pari a circa tre volte il monte contributivo versato. I lavoratori attivi e i contribuenti, in sostanza, provvedono oggi a “coprire” con i loro versamenti e le imposte i due terzi circa del costo di quei pensionamenti precoci. Solo con la riforma Dini del 1995 le baby pensioni sono state eliminate, senza però prevedere la cancellazione dei trattamenti in essere di chi era già andato a riposo. E così torniamo alla considerazione iniziale. Seppure per qualcuno possa risultare razionale e lecito interrompere il versamento degli assegni ai “pensionati troppo giovani” ciò non sarebbe né effettivamente realizzabile, né in definitiva giusto. I baby pensionati, infatti, lasciarono il lavoro a quel tempo in forza di una legge vigente e oggi si possono forse limare alcuni adeguamenti all’inflazione, ma non sarebbe né legittimo né equo privarli del diritto all’assegno o ricalcolarne completamente l’importo in base ai contributi effettivamente versati. Così come non si può pretendere che i titolari di quei trattamenti ritornino – magari dopo decenni di inattività e a 60, 70, 80 anni d’età – a lavorare... Dove, poi: nelle amministrazioni dalle quali uscirono, in posti che magari non esistono più? Piuttosto, questa è l’ennesima lezione del passato di cui occorre fare tesoro nel momento in cui si riapre il cantiere della riforma della previdenza. Il sistema va reso certamente più flessibile rispetto alle rigidità attuali, introdotte con la riforma Fornero, ma sempre trovando un proprio equilibrio. Anche la scelta di Quota 100, infatti, oltre ad aver fallito l’obiettivo del ricambio occupazionale, si è rivelata troppo “generosa” e costosa per essere rinnovata così. Quella che va ricercata e perseguita da governo e parti sociali, invece, è una duplice sostenibilità. Finanziaria anzitutto – perché la migliore garanzia per il futuro del sistema è la sua capacità di autoalimentarsi almeno per la gran parte – e sociale, verso le generazioni future, sulle cui spalle non si possono né caricare altri debiti da pagare, né scaricare ingiustizie e penalizzazioni. Non è certo facile, ma la sostenibilità è la strada più sicura per arrivare al traguardo dell’equità.

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