Addio al figlio non nato eppure avuto in dono
mercoledì 29 marzo 2017

La piccola bara bianca è davanti all’altare. La chiesa gremita di gente, in un silenzio attonito e commosso. Uno stuolo di amici si stringe attorno ai genitori di Pietro Maria Adeodato, morto nella pancia della mamma poche settimane prima che terminasse la gravidanza. L’hanno chiamato così, mettendogli il nome del grande amico di Gesù, quello della Madonna e un terzo nome che significa 'donato da Dio'. Un dono a cui i genitori non hanno voluto rinunciare anche dopo che i medici avevano diagnosticato una grave malformazione incompatibile con la vita. E così hanno vissuto sette mesi pregando e sperando, chiedendo il miracolo della guarigione insieme a quello della conversione del cuore. Perché è potuto accadere? Che senso ha una morte così atroce? Verrebbe da dire che non ci sono parole per rispondere.

E invece ci sono. Sono le parole che la grazia di Dio ha messo in bocca ai genitori, e che si depositano in maniera indelebile nel cuore di chi ha partecipato a un funerale difficile da dimenticare. Quando hanno saputo della diagnosi infausta, papà e mamma hanno scritto agli amici una lettera in cui è racchiuso il senso di quello che stava accadendo, e che ha permesso loro di vivere il tempo dell’attesa con la consapevolezza che siamo fatti – tutti – per un destino buono, una consapevolezza che forse loro stessi non immaginavano di poter avere. «Ci è chiesto un sacrificio. Cioè di rendere sacro il nostro rapporto con Pietro, che vuol dire guardarlo come lo guarda Dio: con verginità. Questo sacrificio è una responsabilità enorme nei confronti della nostra fede e della nostra vita. Essere toccati dalla grazia è questo: guardare le cose come Cristo.

A volte il Mistero ti tocca con una carezza (come quando noi due ci siamo conosciuti), a volte in un modo più deciso e a tratti violento. Guardare una cosa con verginità ti chiede anzitutto di domandarti e di verificare dov’è il tuo cuore, il tuo centro affettivo: dov’è la tua felicità. Sembra scontato a volte dire che la propria felicità è in Cristo. Nel nostro caso non lo è per niente: a noi è chiesto di riconoscere che la nostra felicità non è in Pietro, ma in Gesù. Non è in ballo solo il nostro bambino, ma il rapporto con Lui. Un’amicizia che ci chiede tutto». A loro davvero è stato chiesto tutto, un 'sì' totale e incondizionato. Per questo hanno deciso di celebrare il funerale nella stessa chiesa dove alcuni anni prima si erano uniti in matrimonio, pronunciando un 'sì' che li legava per tutta la vita. E quella chiesa – per una coincidenza che la dice lunga sulle dinamiche misteriose che muovono l’esistenza – è intitolata a San Pietro, lo stesso nome del bambino che hanno accompagnato in un percorso misterioso, affidandosi a un Altro. Riconoscere che la vita è un mistero nelle mani di un Altro è l’unico modo per darsi ragione di quanto è accaduto.

La fede ce lo fa intuire anche dentro un dolore inenarrabile, che arriva fino a sperimentare le ruvidità della morte. «Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore»: il brano di San Paolo che viene letto dal pulpito descrive la posizione vertiginosa che i genitori del piccolo Pietro hanno potuto tenere in questi mesi di trepidante attesa, per grazia di Dio più che per un eroismo impossibile. Quando il funerale finisce e si aprono le porte della chiesa, un raggio di sole si posa lieve sui presenti.

È un segno, inatteso, che sembra evocare le parole di un canto risuonato poco prima: «Non arrenderti al buio che le cose divora, ora è notte ma il giorno verrà, ancora». In un mondo che vive nello scetticismo e che non sa più darsi le ragioni per vivere, può accadere di scoprire queste ragioni quando si sta davanti alla morte. Possono accadere cose come queste, a un funerale. Cose dell’altro mondo. In questo mondo.

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