martedì 30 novembre 2010
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Adesso li chiamano "pro life" all’americana, e qualcuno persino immagina scenari inesistenti di frange "cattoliche integraliste per la vita a oltranza". In realtà sono solo vivi: migliaia e migliaia di malati e disabili e di loro familiari, persone semplici, padri e madri, figli e fratelli, ognuno con il suo volto e la sua storia umanissima di paure e sofferenza, spesso supportati dalla fede ma spesso anche no, a volte forti come leoni ma tante altre volte sfiniti, tutti troppo occupati nella lotta quotidiana della sopravvivenza spiccia per pensare a ideologie e appartenenze. Vivono e sperano di farlo nel modo più dignitoso, chiedendo di non essere abbandonati. Tutto qui. E oggi si guardano intorno, stupiti da irrealistiche definizioni che non li descrivono, ma anche dal silenzio punitivo che è stato loro comminato come se avessero una colpa. Come se non fossero già vittime, fin troppo colpite dalla vita. «Noi non siamo opinioni, siamo esperienze, storie vere», rispondono a chi ha imposto loro il bavaglio, e lo hanno dimostrato molto bene nelle trasmissioni televisive che in questi giorni stanno offrendo loro, quasi a titolo riparatorio, una ribalta cui non sono abituati. Noi di Avvenire però questo popolo dolente e forte insieme, fragile ed energico, lo conosciamo bene da sempre, semplicemente perché da sempre lo abbiamo incontrato sulle strade della "nostra" cronaca; e da due anni lo abbiamo anche come compagno di viaggio in tante avventure umane: ci riferiamo a quei malati o disabili – persino ragazzi in stato vegetativo o risvegliati – che con i loro genitori e i volontari che li assistono viaggiano l’Italia insieme a noi per raccontarsi. Perché da due anni, da quando Eluana è stata portata a morire, sentono di doverlo fare. «Non vogliamo opinioni», ha detto Fabio Fazio spiegando il suo no a malati e disabili, e loro sono tutto meno che un’opinione. Anche il silenzio, o per meglio dire la censura che li ha ammutoliti in queste settimane, noi la conosciamo bene, per averla provata: alla morte di Eluana Avvenire raccolse e documentò in un libro dal titolo emblematico ("Eluana. I fatti", coedito con Ancora, i proventi degli autori ai disabili in stato vegetativo) tutto ciò che era accaduto, senza commenti né ipotesi, cogliendo così un’esigenza espressa dalla gente comune, che voleva conoscere "i fatti" per decidere secondo la propria coscienza. Un libro che tralasciava "il dibattito politico e i risvolti confessionali", per essere strumento utile a chiunque e a un dibattito aperto. Quotidiani e periodici, quasi tutti, lo hanno censurato tra imbarazzi e rossori («dovete capire, l’argomento è spinoso»), le tivù tutte («un contraddittorio con Englaro? Sarebbe bello, però...»). E oggi non un accenno nella bibliografia che Vieni via con me ha messo sul suo sito per agevolare l’approfondimento (spiccano invece titoli come "Storia di una morte opportuna" o "Il diritto di morire"). Eppure – è questo che qui vogliamo testimoniare – oltre a un popolo che si racconta ce n’è un altro, immenso, che ascolta e riempie le sale ovunque si vada: è la gente che si pone dubbi, che vuole sapere, che discute anche, dibatte, si accalora e fa domande scomode e difficili, ma che non rifiuta il confronto e non si accontenta di una sola campana. Gente di destra e di sinistra, credente e atea, molte volte anche certa di avere già la verità in tasca, ma poi, quando tocca con mano, è anche pronta a stupirsi e più di una volta sbotta: «Ma tutte queste cose non le sapevamo, è colpa di voi giornalisti». Impossibile dargli torto.
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