mercoledì 12 giugno 2019
Maggioranza assoluta per il partito induista del premier, che ora promette assistenza sanitaria gratuita per 500 milioni di poveri. Timori di una stretta sulle minoranze cristiana e musulmana
Il premier indiano Narendra Modi, 68 anni (Ansa)

Il premier indiano Narendra Modi, 68 anni (Ansa)

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La risposta delle urne alle proposte di Narendra Modi è stata chiara, e l’India è entrata in una nuova fase a guida nazionalista. Nella Camera bassa del Parlamento di New Delhi, Lok Sabha, il Bharatiya Janata Party (Bjp), che è anche vessillo politico del fronte induista militante, ha conquistato da solo 303 seggi su 545; che salgono a 353 con gli alleati dell’Alleanza democratica nazionale. Al di là dei risultati annunciati il 23 maggio dopo sei settimane di tornate elettorali, quel che è certo è che la speranza di una deviazione della politica nazionale dalla traiettoria dell’ultimo quinquennio è andata delusa. Alla prova dei fatti, è stato negato l’assunto che solo la sconfitta del Bjp avrebbe potuto far ritrovare al Paese, anche sul piano politico, la sua forza maggiore, ovvero il pluralismo. Al contrario, ottenendo un secondo mandato, Narendra Modi, è stato l’unico premier dal 1971 a tornare al potere con una maggioranza assoluta. Prima di lui c’erano riusciti significativamente solo Jawaharlal Nehru a capo del primo governo dell’India indipendente e sua figlia Indira Gandhi. Miti che vanno appannandosi nella prospettiva storica e un mito in formazione, non soltanto per i suoi estimatori.

I risultati portati sul piatto della richiesta di fiducia al Paese sono stati concreti, anche se minacciati da maggiore disoccupazione e da una contrazione degli alti livelli di crescita degli ultimi anni. Ma sostenuti da una più diffusa qualità della vita e da speranze distribuite a piene mani. Di sicuro impatto sull’elettorato è stato il progetto di assistenza sanitaria universale aperto a 500 milioni di indiani che vivono sotto la soglia di povertà. 'Modicare', così è stato definito, dovrebbe avere la propria copertura con un sostanziale raddoppio, al 2,25 per cento, della spesa sanitaria sul bilancio federale complessivo. Il programma è stato lanciato lo scorso anno e sulla carta garantisce cure e ricovero fino a un costo per le strutture pubbliche o convenzionate equivalente a 6.400 euro. Un provvedimento di ampia portata, dato che finora solo il 25 per cento degli 1,34 miliardi di indiani era stato in grado di accedere a una assicurazione specifica, con conseguenze estreme per 1,6 milioni di individui ogni anno.

Ovvia la domanda di molti, in India e all’estero: che cosa succederà ora, nella nuova legislatura? La risposta si gioca su più piani, a partire da quello produttivo. In un Paese dove la crescita dipende ampiamente dalla domanda interna, il settore manifatturiero ha registrato a ridosso del voto, e anche successivamente, un balzo in avanti. A riprova che il sentimento verso la leadership nazionalista resta positivo. Restano però le sfide, come registrato dai dati ufficiali diffusi il 31 maggio, da cui risulta una crescita economica con il passo più lento da quattro anni, ancorché prevista superiore al 7 per cento; e la necessità di ulteriori riforme per garantire possibilità e benessere a una popolazione molto giovane. Tuttavia, i timori sono anche di altro genere e tutt’altro che ideali. Davanti allo strapotere della politica filoinduista, secondo diversi osservatori, si andrebbe verso un’ulteriore crisi delle minoranze, come conseguenza di una minaccia più estesa per la democrazia.

Tra gli altri, si è fatto portavoce di questa posizione sulle pagine del 'New York Times' il saggista e romanziere Pankaj Mishra (che due anni fa ha rilasciato a 'Avvenire' un’intervista centrata sulla sua tesi del contrasto tra la mancanza di responsabilità delle democrazie liberali e l’adesione di realtà discriminate a ideali di 'dominazione culturale, populismo e brutalità vendicativa', di cui il Daesh, ma anche gli estremismi e nazionalismi in corso, sarebbero manifestazioni). Per il 50enne Mishra, la vittoria del Bharatiya Janata Party sarebbe sì frutto di proposte allettanti e oggettivi risultati conseguiti, ma anche del credito accordato dagli elettori a un leader che si considera dotato per sua ammissione della 'saggezza da inesperto', ovvero di un intuito che attira le masse meno colte o smaliziate. In «un’India che sotto il governo Modi è stata attraversata da continue violenze nel mondo reale e nel mondo virtuale» e dove «i suprematisti indù hanno infiltrato le istituzioni, dall’esercito alla magistratura, passando per i mezzi d’informazione e le università», lo studioso arriva ad ammettere «che nessuno di questi fattori, tuttavia, può spiegare l’incantesimo che Modi ha lanciato su una popolazione composta in larga misura da giovani».

Nemmeno sono serviti a frenarne l’avanzata i timori amplificati dall’idea di una deriva autoritaria auspicata da elementi di punta dell’alleanza di governo né le pressioni evidenziate dall’opposizione nei confronti della Commissione elettorale e della Corte suprema. Si tratta di elementi preoccupanti non solo per gli ideali della 'più grande democrazia del mondo', ma anche per la sorte delle minoranze. Queste ultime temono un’accelerazione verso l’'autoritarismo indù' dopo un responso delle urne che il leader del Congresso nello Stato del Nagaland, il cristiano Kewekhape Therie, ha definito un mandato «per la polarizzazione della religione «. Solo i prossimi mesi indicheranno con chiarezza se il trionfalismo del presidente del Bjp, Amit Shah, che ha auspicato un potere affidato al suo partito «per i prossimi 50 anni», rifletterà la personale fiducia nella leadership politica attuale oppure una minaccia concreta per le minoranze che pure hanno votato per i partito di maggioranza e altri ad esso associati non avendo più – cristiani e musulmani insieme – un riferimento come per decenni era stato il laico e gandhiano Partito del Congresso.

Un ruolo in negativo è stato giocato dalle opposizioni. Proprio il Partito del Congresso ha vissuto l’umiliazione di una nuova e sonora sconfitta, con un recupero di pochi seggi complessivi, ma la perdita di alcune roccheforti tradizionali. A loro volta, i Gandhi, che del Congresso sono anima e guida dall’indipendenza, hanno addirittura visto l’esproprio del 'feudo' elettorale di famiglia, la circoscrizione elettorale di Amethi nell’Uttar Pradesh, a beneficio del candidato del Bjp. Di conseguenza, il presidente Rahul Gandhi, nel dicembre 2017 succeduto nella presidenza del partito alla madre Sonia, ha offerto le dimissioni, aprendo un profondo dibattito nella dirigenza del partito. Non è solo il Congresso a vivere una transizione al momento senza prospettive. Le scorse elezioni hanno anche visto un calo consistente dei comunisti nelle loro vari incarnazioni partitiche, arrivati a detenere solo due seggi nel Parlamento federale. Pesante la sconfitta nel Kerala, dove controllano solo uno dei 20 seggi destinati da questo Stato meridionale al Parlamento nazionale, ma dove restano alla guida del governo locale. Drammatico invece l’arretramento nell’altra roccaforte, il Bengala occidentale. Dopo avere ceduto nel 2011 la maggioranza a un partito con base regionale nonostante 34 anni di controllo indiscusso, a maggio i comunisti non hanno vinto nemmeno uno dei 42 seggi in gioco.

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