Sfigurato da una granata, Alì ha ritrovato a Roma volto e dignità

Il palestinese, 30 anni, era rimasto sfigurato in un’esplosione a Khan Yunis nel 2017. Operato all’Istituto dermopatico dell’Immacolata, con l'aiuto del Centro Astalli, ha ritrovato la sua identità
May 30, 2025
Sfigurato da una granata, Alì ha ritrovato a Roma volto e dignità
undefined | Il palestinese Ali Anajjar insieme a Gianfranco Schiavone, il chirurgo plastico che lo ha operato
Ogni viso racconta una storia, alcuni vengono cancellati dalla guerra, come quello di Ali Anajjar, trentenne palestinese, rimasto sfigurato in un’esplosione a Khan Yunis nella Striscia di Gaza. A Roma ha ritrovato non solo il suo volto, ma anche la speranza. Grazie all’accoglienza e al sostegno del Centro Astalli, sede italiana del Jesuit Refugee Service, che da oltre quarant’anni accompagna e difende i diritti dei rifugiati, Ali è stato operato all’Istituto dermopatico dell’Immacolata di Roma, ospedale fondato dal Beato Luigi Maria Monti, oggi centro d’eccellenza nella chirurgia dermatologica e ricostruttiva. Qui, l’équipe di Chirurgia plastica rigenerativa ha ridisegnato ciò che la guerra aveva strappato: tratti, lineamenti, dignità.
«Non sono rimasto ferito in questa guerra ma nel 2017» precisa Ali, aggiungendo: «Quel maledetto 7 ottobre non è l’inizio di tutto, a Gaza il conflitto non è mai finito». Il suo racconto è frammentario: «Camminavo per strada con tre amici, quando dei soldati israeliani hanno sparato una granata. L’esplosione ci ha colpito in pieno. I miei compagni sono morti, io mi sono risvegliato dopo un mese di coma con le gambe paralizzate, un viso devastato dalle ustioni e senza naso».
A Dubai, racconta, «ho subito otto interventi chirurgici per ridurre i danni neurologici e rimettermi in piedi. Ogni intervento era una speranza, un tentativo di riprendermi una parte di me. Ho avuto una seconda occasione: oggi a Roma cammino con le mie gambe e qui mi sono ripreso il mio volto».
Il viso è «ciò che ci definisce agli occhi degli altri e anche ai nostri, ricostruire un volto significa riconsegnare un’identità – afferma con commozione Gianfranco Schiavone, il chirurgo plastico che lo ha operato –. Siamo intervenuti sulle deformità con un programma operatorio complesso che ha previsto anche l’impiego di cartilagine proveniente da una banca dei tessuti. Più che un intervento, è stato un abbraccio. Sapevamo di non operare solo su tessuti e pelle, ma su una ferita dell’anima. Là dove la guerra cancella, la cura può ricostruire. Là dove la brutalità disumanizza, la medicina può restituire dignità».
Oggi Ali, ha un nuovo volto. E con esso, una nuova possibilità. Il suo futuro lo immagina in Italia, il Paese che ama. A Gaza faceva il grafico, a Roma studia in una scuola per diventare “tattoo artist”. Mostra, orgoglioso i suoi lavori, ama disegnare e tatuare le rose perché sono il simbolo della rinascita, come la sua. Ne ha una di inchiostro blu impressa sulla pelle del suo braccio, insieme ad una striscia di terra, la sua Gaza, dove forse un giorno tornerà ad abbracciare suo padre.
«Non è facile capire cosa stia realmente accadendo – racconta – non riesco a mettermi in contatto con i miei familiari. Quello che succede a Gaza lo vengo a sapere dai telegiornali, pochi giorni fa è stato orribile vedere in tv mia zia, Alaa al-Najjar, pediatra a Khan Yunis piangere i suoi nove figli, morti nella loro casa durante un bombardamento. Il suo viso era trasfigurato, da un dolore feroce». E, «ora l’ultimo dei suoi figli potrebbe essere portato qui in Italia, speriamo». Quando gli chiedi che cosa prova, gli si illuminano gli occhi e risponde: «Nonostante tutto, mi sento grato, amo la vita. La speranza? Non l’ho mai persa, vivere in pace è solo una scelta, il mio popolo è stanco di vivere in guerra». Quella scelta che tutto il mondo attende. A Gaza la guerra continua, seminando odio, fame e sofferenza. Dall’inizio dell’ultimo conflitto le vittime sono oltre 54.000, di cui un terzo minori. Numeri drammatici che suscitano indignazione. Ma la testimonianza di Ali ricorda che dietro ogni numero c’è una persona: un volto, un nome e una vita. La sua non è solo una storia di resilienza, ma il simbolo di un popolo ferito.
È anche la storia di un’Italia che sa ancora accogliere, di un medico che con le sue mani aiuta un giovane a ritrovarsi, di un ospedale che sa ancora commuoversi incarnando a pieno la missione affidatagli da uno dei suoi fondatori, il Venerabile fratel Emanuele Stablum, che esortava i suoi medici a guardare oltre le ferite del corpo e curare anche quelle dell’anima. Proprio quello stesso ospedale che nel corso della Seconda guerra mondiale, rispondendo alla circolare segreta di papa Pio XII “Opere et Caritate” seppe dare rifugio e protezione ad oltre cento persone fra ebrei e perseguitati politici, registrandole sotto nomi falsi e dichiarandole affette da malattie contagiose per scoraggiare i controlli delle SS, comportamento eroico per il quale nel 2001, il Venerabile Stablum venne riconosciuto anche “Giusto tra le Nazioni”. Un’eredità morale che continua. Un volto ritrovato è un atto di riscatto che rompe il silenzio dell’ingiustizia.

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