venerdì 4 giugno 2021
Nel 32esimo anniversario della strage Wuer Kaixi, studente di economia, dall'esilio di Taiwan ricorda il giorno in cui passò alla storia
Il dissidente Wuer Kaixi oggi

Il dissidente Wuer Kaixi oggi - Da Pio D'Emilia

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«Compagno primo ministro, non devi giustificarti per essere arrivato tardi a causa del traffico. Il problema non è il tuo ritardo oggi. È il ritardo con il quale voi dirigenti vi siete decisi a discutere con noi. Perché mentre noi siamo qui a chiacchierare, in piazza ci sono dei giovani che si stanno lasciando morire di fame, e altre decine di migliaia che aspettano una risposta. Che non verrà». È il 18 maggio 1989: mentre l’ex leader sovietico Gorbaciov ha appena concluso la sua «storica» vista ufficiale, milioni di cinesi assistono in diretta tv ad un dibattito tra l’allora premier Li Peng ed un gruppo di studenti. Ad interrompere il premier è Wuer Kaixi, giovane studente di economia, di etnia uighura. Lui all’incontro, al quale era stato invitato in quando leader di una delle “fazioni” in cui si era diviso il movimento, si era presentato puntuale. Ma in pigiama. «È vero, ma non lo feci certo per mancanza di rispetto, Anzi. Ero e sono tuttora fiero di aver partecipato a quell’incontro. Ma il giorno prima mi avevano ricoverato in ospedale e i medici non mi volevano far uscire. Sono scappato da una finestra».

Beh, diciamo che aldilà dell’abbigliamento, non ci è andato leggero, quel giorno. Nel video si vede chiaramente prima lo stupore, poi l’imbarazzo, infine il fastidio di Li Peng. Qualcuno dice che è stata colpa sua se le cose poi sono precipitate. Col senno di poi, lo rifarebbe?
«Ci mancherebbe. Non penso di essere stato così determinante… e comunque sì, lo rifarei, rifarei tutto quello che io e tanti compagni abbiamo fatto in quei giorni. Purtroppo quel dibattito, che comunque fu un atto coraggioso da parte del regime, oggi impensabile, arrivò troppo tardi. Deng Xiaoping, l’uomo che aveva lanciato le riforme e nel cui nome avevamo cominciato la nostra battaglia aveva già deciso di reprimere nel sangue la protesta. Non c’era più nulla da fare».

Wuer, che all’epoca aveva 21 anni, dopo l’incontro torna in piazza (sempre in pigiama), discute un po’ con i suoi colleghi, ma poi decide di tornare in ospedale. Da dove scapperà di nuovo, pochi giorni dopo, evitando l’arresto grazie a Yellowbird, una rete di solidarietà “operativa” che all’epoca vide la collaborazione dei servizi segreti di Stati Uniti, Francia e Regno Unito (ma anche delle triadi di Hong Kong) e che consentì ad una ventina di leader della protesta di nascondersi prima e poi espatriare. Dopo un breve soggiorno a Parigi e uno un po’ più lungo negli Usa, Wuer Kaixi da alcuni anni vive a Taiwan, dove l’abbiamo raggiunto al telefono alla vigilia del 4 giugno, 32° anniversario del massacro del 1989.


Ora dall’esilio di Taiwan parla di Hong Kong
e della sua etnia uighura perseguitata
«La prima verità è che la Cina ci impedisce
di conoscere la verità. E non è poco. Quello che so
è che milioni di persone sono state schedate
e rinchiuse in centri di rieducazione»

Cosa ne pensa della situazione di Hong Kong: la Cina ha imparato la lezione? Stessi risultati, ma senza spargere sangue?
Purtroppo sì, non solo la Cina ha cambiato la sua strategia, nel frattempo il mondo libero, espressione che mi piace usare, ha perso completamente la sua. Non sapete più dire di no. E se lo dite, lo dite in ordine sparso. La perdita di Hong Kong non è colpa della Cina, ma di chi non ha voluto e saputo difenderla.

Parole grosse, Wuer. Ma non pensa che la Cina, sotto la guida del Partito Comunista, di cui tra pochi giorni verrà celebrato il centenario della nascita, abbia anche fatto qualcosa di buono? Xi Jinping ha appena annunciato di aver abolito la povertà.
Beh, ci mancherebbe altro: nel corso degli anni, il gruppo dirigente ha accumulato ricchezze e privilegi senza precedenti… è normale che abbia lasciato qualche briciola al popolo. È un modo efficace per rendere quello che è un saccheggio economico, oltre che morale, sostenibile.

Soldati iin piazza Tienanmen nel giugno 1996

Soldati iin piazza Tienanmen nel giugno 1996 - Ansa

Molti dicono che se si svolgessero elezioni libere, il partito vincerebbe comunque, con oltre l’80% dei voti...
La prima volta può anche darsi, ma durerebbe poco. Il virus della democrazia è incontenibile, in pochi anni il partito verrebbe spazzato via. E comunque, se sono tanto sicuri di avere l’appoggio della popolazione. Che le facciano le elezioni libere e democratiche. Ma non mi sembra che sia questa la tendenza, tutt’altro: a Hong Kong, l’unica città cinese dove ancora si potevano fare, hanno cambiato la legge e ora per candidarsi serve un certificato di patriottismo, una specie di nulla osta concesso dalla commissione elettorale nominata da Pechino.

Quindi pensa che con la Cina ci possa essere solo una politica di contenimento e di confronto duro?
C’è voluto un presidente business man come Trump per far saltare il tavolo e far capire al mondo che alla Cina era stato concesso troppo. Ma io penso che Biden sarà ancora più efficace: perché a differenza di Trump che voleva fare tutto da solo, ha chiesto e ottenuto dall’Europa di ricostituire un fronte comune. La prova è che il Paramento europeo ha bloccato il famigerato trattato sugli investimenti. Forse è la volta buona che la Cina sentirà il fiato sul collo…

Wuer, su Tienanmen è uno dei pochi protagonisti che ha denunciato l’esagerazione di certi racconti, sostenendo che la maggior parte delle vittime sono state frutto di scontri avvenuti lontano dalla piazza e anche da parte degli studenti sono stati compiuti atti di violenza. Ora gli stessi dubbi nascono per lo Xinjiang. Lei è di origine uighura, è nato lì. Anche se sono più di trent’anni che non vede i suoi genitori, immagino abbia dei contatti diretti. Cosa sta avvenendo lì? Siamo davvero di fronte ad un genocidio?
Intanto la prima verità è che la Cina ci impedisce di conoscere la verità. E non è poco. Per il resto, non lo so. Quello che so è che milioni di uighuri sono stati schedati e rinchiusi in centri di rieducazione più o meno aperti. Alcuni in veri e propri campi di concentramento. Non basta? Possibile che ai dirigenti cinesi non venga in mente che rinchiudere la gente solo perché ha tradizioni, culture e magari idee diverse non sia normale? No, non lo è. Ma è il mondo che dovrebbe farglielo capire.

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