domenica 14 marzo 2021
Assad si trova a governare una nazione che ormai non è sua, dopo 50 anni di potere familiare Se la sono spartita i veri vincitori: russi, iraniani, turchi Sulla pelle di 12 milioni di sfollati
I profughi, in prevalenza palestinesi, in fila per il cibo durante l’assedio del campo di Yarmuk alle porte di Damasco, il 31 gennaio 2014

I profughi, in prevalenza palestinesi, in fila per il cibo durante l’assedio del campo di Yarmuk alle porte di Damasco, il 31 gennaio 2014 - Unrwa

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Dalla sanguinosa repressione delle manifestazioni pro-democrazia, passando attraverso gli attacchi chimici, le tattiche della terra bruciata e gli interminabili assedi, fino all’intervento militare di russi, iraniani, turchi, americani, senza dimenticare gli orrori commessi da un lungo elenco di gruppi militari né dalle migliaia di aspiranti jihadisti fatti convogliare dal Daesh: domani saranno trascorsi dieci anni dall’inizio del conflitto in Siria e il Paese sembra allontanarsi sempre di più dalla soluzione diplomatica e politica tanto richiesta dalla comunità internazionale. «Un incubo vivente», aveva sintetizzato, pochi giorni fa al Palazzo di Vetro, il segretario generale delle Nazioni Unite.

La protesta popolare scoppiata il 15 marzo 2011 in reazione all’arresto a Daraa, nel Sud del Paese, di alcuni ragazzi “colpevoli” di avere scritto sui muri slogan anti- regime, aveva tutta l’apparenza di essere una delle tante onde innescate dalla Primavera araba. Nelle settimane precedenti, infatti, due “teste coronate”, il tunisino Ben Ali e l’egiziano Mubarak, erano state costrette alle dimissioni, mentre il trono del più longevo presidente arabo, Muammar Gheddafi, stava fortemente vacillando. E invece, si trattava del primo atto di una guerra che non ha lasciato nessuna famiglia intatta: tra 400 e 600mila morti, 12 milioni (i due terzi della popolazione) costretti a trovare rifugio altrove e innumerevoli altri che rimangono illegalmente detenuti, sono scomparsi o vivono nell’incertezza del domani.

Dieci anni di guerra hanno messo in ginocchio un Paese un tempo protagonista principale sullo scacchiere mediorientale. L’unica “vittoria” ottenuta dal presidente Bashar al-Assad è forse quella di aver tenuto contro le voci che in questi dieci anni lo davano per spacciato, prossimo a capitolare. Lo scorso 22 febbraio, tra il padre Hafez e il figlio successore, gli Assad hanno così potuto celebrare mezzo secolo (1971-2021) di insediamento al vertice della Siria. Tradotto in numeri, significa che l’85 per cento dei 18 milioni di siriani, quelli di età inferiore ai 50 anni, non ha conosciuto altro presidente che Assad. Bashar ha vinto la «guerra internazionale» – come gli piace spesso definirla – contro il suo Paese rimanendo in sella. La prima «guerra per procura » moderna.

Ha sconfitto – per modo di dire – anche il Covid-19, «contratto in modo lieve » insieme alla moglie Asma, e ora si prepara a correre per un nuovo mandato alle presidenziali del prossimo giugno, beffandosi dell’ultima risoluzione del Parlamento Europeo che ha considerato tali elezioni prive «di qualsiasi credibilità agli occhi della comunità internazionale nel contesto attuale». Ma non è sicuro che Assad possa vincere la battaglia dell’unità della Siria, né quella per la ricostruzione. Oggi, le forze filo- governative controllano il 65 per cento del territorio nazionale, mentre è per il 25 per cento sotto il comando delle milizie curdo-arabe delle Forze siriane democratiche (Fsd) e per il 10 per cento sotto il controllo della Turchia oppure delle formazioni ribelli concentrate ormai nella sola provincia nordoccidentale di Idlib.

È inutile aggiungere che, in molte aree governative, sono i militari di Mosca o i miliziani reclutati da Teheran a dettare le regole del gioco, mentre in quelle controllate dalle opposizioni si moltiplicano le basi americane e le postazioni turche. Il destino della Siria, insomma, si decide ormai altrove, come dimostra il vertice che ha riunito giovedì a Doha i ministri degli Esteri di Russia, Turchia e Qatar. E con una sovranità ridotta, come indica il raid aereo compiuto dal nuovo presidente americano Biden nella parte orientale del Paese contro le milizie irachene filo-Teheran. In questo cupo quadro assumono un importante valore gli sforzi internazionali tesi a lottare contro l’impunità dei responsabili dei tanti orrori commessi in questi dieci anni.

Un tribunale tedesco ha condannato, tre settimane fa, un colonnello dei servizi segreti siriani a quattro anni e sei mesi «per favoreggiamento di crimini contro l’umanità sotto forma di tortura e privazione della libertà». Una sentenza definita storica dagli attivisti per i diritti umani, che sperano crei un precedente per altri casi, anche ai livelli più alti, contro chi ha calpestato sistematicamente i diritti dei siriani.

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