giovedì 4 aprile 2019
Convinti a imbarcarsi dal Myanmar a centinaia su pescherecci verso Thailandia, Malaysia e Indonesia, in realtà finivano in schiavitù o morivano. Indagine delle Ong sulla tratta di 170mila disperati
Un'imbarcazione di profughi Rohingya approda a Phuket in Thailandia (Ansa)

Un'imbarcazione di profughi Rohingya approda a Phuket in Thailandia (Ansa)

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Un nuovo rapporto, frutto dell'impegno congiunto della Ong Fortify Rights e della Commissione per i Diritti umani della Malaysia fornisce dati che per la prima volta confermano il ruolo dei trafficanti di esseri umani nella fuga via mare tra il 2012 e il 2015 di 170mila Rohingya, con caratteristiche di crimini contro l'umanità. Il dramma dei Rohingya, coinvolti in vicende terribili in alcuni casi durate anni e in molti altri finite con un'uccisione brutale e una sepoltura sommaria nella foresta o in fondo al Mare delle Andamane era stato scoperto nella primavera 2015 per il ritrovamento di centri di detenzione in Thailandia a ridosso del confine malese. Il rapporto di 121 pagine, intitolato "Sold Like Fish" (Venduto come pesce,) è il risultato di laboriose ricerche e di 270 interviste a testimoni oculari, sopravvissuti, trafficanti, funzionari governativi e altri tra il 2013 e il 2019. Ne emerge che nel periodo considerato, criminali di nazionalità birmana, thailandese e malese, guadagnarono sulla pelle dei Rohingya tra 50 e 100 milioni di dollari l'anno.

Le complicità

Nelle pagine si sottolineano le responsabilità della autorità locali, non solo al corrente dei drammi che si svolgevano al largo o a terra, ma che vi avrebbero lucrato e, una volta emersi i primi casi di uccisioni, avrebbero cercato di insabbiare le inchieste, distruggendo in alcuni casi i campi di detenzione individuati oppure impiegando mesi a riesumare i cadaveri e procedere con i rilievi autoptici. Nel rapporto si evidenzia come i trafficanti, in rapporto con la criminalità locale, convinsero i musulmani Rohingya a imbarcarsi dal Myanmar (o dalla zona dei campi profughi in Bangladesh) a centinaia su natanti da pesca verso mete (Thailandia meridionale, Malaysia e Indonesia) considerate sicure perché abitante da correligionari, per poi privarli di cibo e acqua, torturandoli, violentando le donne e spingendone un numero ancora incerto al suicidio in mare. Una volta sbarcati venivano detenuti in condizioni di schiavitù, chiedendo per molti un riscatto alle famiglie lontane, cedendone altri a trafficanti o imprenditori locali. Per chi non era in grado di pagare, cibo, acqua, cure erano negati anche fino alla morte.

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