domenica 27 novembre 2016
La minoranza musulmana sempre più braccata dall’esercito birmano: 50mila in fuga. Le Nazioni Unite parlano apertamente di «pulizia etnica»
Persecuzione dei Rohingya nel silenzio di Suu Kyi
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Si fa sempre più grave la crisi che coinvolge i Rohingya, proprio quando le Nazioni Unite tornano a parlare, e apertamente, di «pulizia etnica». Sono circa 50mila gli appartenenti alla minoranza rohingya, senza riconoscimento di cittadinanza in Myanmar, concentrati nello Stato Rakhine (Arakan) in fuga davanti all’offensiva dell’esercito birmano che ha preso di mira presunti militanti armati di questa etnia dopo l’uccisione, il 9 ottobre, di nove poliziotti al confine con il Bangladesh. Per le autorità birmane, le notizie di brutalità verso la popolazione civile sarebbero solo propaganda tesa a screditare le forze armate. Delle decine di morti registrati, tra 89 e 140 secondo le fonti, almeno una trentina sarebbero militanti, gli altri in maggioranza civili. Imprecisato il numero di vittime per l’affondamento di una battello carico di fuggiaschi nel fiume Naaf che segna il confine birmano- bengalese. I superstiti si sono rifugiati in campi profughi oltreconfine, dove già da lungo tempo sono accolti in condizioni disperate 250300mila Rohingya. Le violenze in corso sono sicuramente le più gravi da quelle registrate nello Stato Rakhine nel 2012, con centinaia di morti soprattutto tra i musulmani di etnia rohingya e birmana oggetto di persecuzione da parte dei buddhisti nazionalisti non contrastati dalle autorità e dalle forze di sicurezza. Quanto sta accadendo sicuramente rappresenta un test importante per il governo in cui ha un ruolo di spicco la Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che in queste settimane si è appiattita sulla politica di negazione delle atrocità. Una sfida per la giovane democrazia birmana, con gli uomini in divisa che ancora controllano ministeri-chiave, tra cui quello dell’Interno e delle Frontiere. Altri elementi rendono problematica la situazione. Nella capitale commerciale Yangon, colpita venerdì da diverse esplosioni di modesta potenza, sono stati arrestati tre presunti militanti rohingya e, negli ultimi due giorni, nelle maggiori capitali del Sud-Est asiatico, le ambasciate birmane sono state assediate da musulmani che chiedono la fine della persecuzione dei correligionari. Lo Stato Rakhine è ora off-limits per operatori umanitari e media, ma le fotografie aeree mostrano interi villaggi azzerati dal fuoco. Nelle aree a più alta densità di Rohingya, popolazione che conta all’incirca 1,1 milioni di persone e l’Onu considera come «la più perseguitata al mondo», alle organizzazioni umanitarie è stata intimata la sospensione per 40 giorni della distribuzione di cibo e medicinali a 150mila individui. Una situazione che offre poche alternative alla fuga, allo sconfinamento o al tentativo di raggiungere via mare le musulmane Malaysia e Indonesia, che dopo l’esodo del 2015 hanno accettato di offrire ospitalità a migliaia di boat-people. «Per quanto possa essere difficile per il governo del Bangladesh accogliere un gran numero di profughi, credo che non ci sia alternativa, salvo la morte o ulteriori sofferenze», ha segnalato John McKissick, a capo dell’ufficio dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati nella città confinaria bengalese di Cox’s Bazar. Lo stesso McKissick ha accusato l’esercito birmano di essere impegnato «in azioni di rappresaglia» e ricordato che le forze di sicurezza «hanno massacrato bambini, violentato donne, ucciso uomini, dato fuoco alle loro case e costretto la popolazione ad attraversare il fiume » per entrare in Bangladesh da dove potrebbero presto essere respinti. © RIPRODUZIONE RISERVATA Proteste in Indonesia (Ansa/Ap)
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