giovedì 22 maggio 2014
Firmatari Italians for Darfur, i salesiani di El Obeid, Articolo 21, l’ex inviato Onu in Sudan, Mukesh Kapila, e i rifugiati sudanesi in Italia. (Paolo M. Alfieri) VAI AL DOSSIER
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''Nonostante sia confermato che il giudizio finale sul caso di Meriam Ibrahim Ishag sarà affidato alla Corte Costituzionale, e che la pena di morte possa essere scongiurata, abbassare la guardia ora sarebbe un errore. Meriam sta male, è incatenata e sta per partorire''. Con una lettera aperta al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l’associazione Italians for Darfur, i missionari salesiani di El Obeid, Articolo 21, l’ex inviato Onu in Sudan, Mukesh Kapila, e i rifugiati sudanesi in Italia esortano a tenere viva l’attenzione sulla 27enne sudanese cristiana condannata per apostasia e adulterio a Khartum. ''Crediamo che sia importante continuare a fare pressioni sulle autorità sudanesi - si legge ancora nel testo inviato al Quirinale - magari con un suo intervento, presidente, presso il suo omologo, il presidente del Sudan Omar Hassan al-Bashir, in favore di Meriam, una donna cristiana, incinta e madre di un bimbo di 22 mesi condannata a morte per non aver rinnegato la sua fede''. Italians for Darfur è stata tra le prime organizzazioni a mobilitarsi per il caso di Meriam e ad oggi ha raccolto 25mila firme a suo favore, tra quelle sottoscritte online o inviate via e-mail all’ambasciata del Sudan. “Il tempo della gravidanza di Meriam sta scadendo: dal primo giugno ogni giorno potrebbe essere utile per il parto - afferma la presidente dell’associazione Antonella Napoli - Il marito vorrebbe trasferirla in un ospedale o in una clinica privata. Ma sembra che non ci siano molte speranze che la richiesta presentata dagli avvocati sia accolta. A meno che, come riferisce Khalid Omer Yousif di “Sudan change now”, non sia necessario un cesareo”. Meriam è stata condannata a morte per non aver accettato di abiurare la sua fede, lei cristiana ortodossa in un Paese, il Sudan, in cui il sistema giudiziario è basato sulla legge coranica. Meriam è detenuta in un carcere di Khartum con catene alle caviglie: condizione drammatica per una donna incinta all’ottavo mese. Le sue gambe sono gonfie e le è anche stata negata la possibilità di una visita medica, come ha riferito il marito Daniel Wani, arrivato lunedì in Sudan dagli Stati Uniti. In carcere con Meriam resta anche il figlio di 22 mesi, Martin, che si è già ammalato più volte a causa delle condizioni malsane della prigione. Meriam, per la sharia, è musulmana in quanto lo era suo padre. È stata arrestata e accusata di adulterio per aver sposato un cristiano, dopo la denuncia di un fratello. L’accusa di apostasia è stata aggiunta quando la donna, cresciuta dalla madre come cristiana ortodossa dopo la fuga del padre, ha detto di non essere musulmana. Una settimana fa Meriam è stata condannata a morte da un giudice di Khartum. Il suo avvocato è fiducioso di poter ribaltare la sentenza in appello, ma per ora Meriam resta in carcere in condizioni drammatiche. "Meriam deve tornare a casa e dare alla luce il suo secondo figlio circondata dall'affetto dei suoi cari”, ha sottolineato su sulla sua pagina Facebook il presidente dei Popolari per l'Italia, Mario Mauro, secondo cui la condizione della donna è “inaccettabile”.
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