martedì 3 agosto 2021
Una scintilla innescò il nitrato d’ammonio: l’esplosione devastò la città, provocando 207 morti. I responsabili non sono stati puniti. Il Paese precipita tra crisi, furti, violenze, suicidi...
La distruzione al porto di Beirut

La distruzione al porto di Beirut - Ansa

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Mentre l’avvocato Abboud descrive ai giornalisti la pretestuosa panoplia giuridica con cui i governanti respingono da un anno qualsiasi inchiesta, due operai schiodano le placche su cui sono rappresentati i volti degli accusati. Campeggiano sul muricciolo che divide l’assordante arteria stradale dalle prime sterpaglie del porto. Ora sono una pila di latta, prima erano immagini per un’unica didascalia: «Siamo stati noi». Insieme introducevano alla desolazione degli ossari di ferraglie, agli alti profili sbranati dei silos, al raro andirivieni dei container.

Qui un anno fa una scintilla ha innescato il nitrato d’ammonio, gonfiato la poderosa onda d’urto che ha invaso le strade e risalito la città come un soffio d’apocalisse, devastando, mutilando, uccidendo. Duecentosette i morti, settemila i feriti. Non è dato sapere chi abbia prezzolato gli operai. L’oblio di Stato è pratica comune sui muri di Beirut.

Trauma è la parola più ricorrente nelle voci della metropoli. L’orrore sedimentato dell’esplosione, certo: il panico, l’ansia densa e perenne come l’umidità, l’insonnia dei bambini, il loro precoce incontro con la presenza della morte. Un trauma che ha un luogo, una forma, s’invelenisce al pensiero dei responsabili, alla sfilata delle loro maschere.

Ma ciò che si avvinghia all’incredulità della psiche e rende abissale lo sconforto è il vigile spettro della storia, il destino sanguinoso del Libano aggregato dall’inganno coloniale di britannici e francesi, strutturato sull’oligarchia e il confessionalismo, esploso con l’interminabile guerra civile, curato con l’unguento del neoliberismo spietato dagli stessi satrapi che lo avevano diviso, o dai loro eredi.

La distruzione al porto di Beirut

La distruzione al porto di Beirut - Ansa

Trincea e teatro di tragedia classica per i blocchi geopolitici che si contendono il Medio Oriente. Il Libano è di tutti, il Libano non esiste. Sopravvive puntellato dalle Ong, dal circuito delle provvidenziali rimesse della diaspora, sempre più numerosa, chiuso nel conforto delle famiglie. La storia ha eroso il luogo di convergenza collettiva dello Stato, lo ha reso un simulacro ostentato dalle bande dei partiti. L’ultima fra le diverse stagioni edipiche della disillusa massa libanese si è aperta con le proteste dell’ottobre del 2019.

La risposta della classe dirigente è la crisi economica che oggi consuma il Paese. Il potere d’acquisto è stato annichilito dalle disinvolte operazioni della banca centrale, dall’inflazione. Metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà, nella biopolitica involontaria dell’energia elettrica intermittente, dell’acqua infettata, della precarietà sanitaria. L’esplosione del 4 agosto 2020 è arrivata a magnificare l’indicibile della rabbia atavica.

A poche ore dall’anniversario, Beirut trascina sul baratro le sue antiche contraddizioni. All’inizio di Mar Mikhael, il mercatino “dell’emancipazione dignitosa e sostenibile” raccoglie i venditori dell’usato, giovani e anziani della classe media immiserita. Poco più in là, la strada delle baldorie notturne rimbomba d’ebrezza, irride la pandemia e i senzatetto che sonnambuli cercano di vendere gomme americane. Nel quartiere che non dormiva mai, Hamra, Ahmad lascia incustodito uno dei suoi tre negozi di profumi per agganciare gli acquirenti sul marciapiede. Svende tutto prima di chiudere. Chiede una sigaretta. Nel buio proliferano i furti, le violenze, i suicidi. In tutto il Paese le scuole chiudono e i bambini muoiono di febbre o per la puntura d’uno scorpione. Le medicine latitano, ma altri fanciulli nuotano nelle piscine dei club sulla Corniche. Un gruppo di coetanei siriani li osserva dalla bocca vuota di un palazzo in costruzione. Sono il popolo dei cassoni strabordanti di rifiuti.

La distruzione al porto di Beirut

La distruzione al porto di Beirut - Ansa

Domani i libanesi prenderanno le strade, sostituendosi all’onda d’urto nella celebrazione della distopia. Anche Wassim, seduto nella piccola caffetteria adiacente alla sede del partito Amal, nel quartiere sciita di Dahieh. «La gente di Hezbollah non ha problemi, riceve anche 800 dollari al mese. Parteciperò alla manifestazione, perché no? Ma qui, in questo quartiere, non si parla», dice coprendosi le labbra con la mano. Dopo il porto, il corteo punterà sul Parlamento. Ogni voce attende il caos. O la liberazione.

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