mercoledì 30 novembre 2016
Amico personale del leader scomparso, l’intellettuale argentino difende la libertà dei cubani e di tutti i popoli del continente di essere davvero padroni del proprio destino
Pérez Esquivel: lasciate liberi Sudamerica e Cuba
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«Mi auguro che il nuovo presidente Trump sappia utilizzare il buon senso e comprendere che con i popoli dell’America Latina deve avere un comportamento collaborativo e non prepotente». Incontriamo Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, al Teatro Argentina di Roma dove ha tenuto una lectio magistralissulla «forza della speranza». Con la sua consueta lucidità ci parla di Castro e della politica statunitense, del futuro di Cuba e delle nuove 'dittature del capitale' in America Latina.

Lei è stato molte volte a Cuba, è stato un amico di Castro. Ha un suo ultimo ricordo?
Quando lo accompagnavo negli spostamenti sull’isola salutava ogni famiglia e chiamava ognuno per nome. L’ultima volta l’ho incontrato tre anni fa. Parlammo nove ore di sviluppo e sfruttamento, danni dell’ambiente, solidarietà nella globalizzazione, il disegno che Castro enunciava con convinzione.

Con la morte di Fidel alcuni analisti sostengono che per l’America Latina sia finito il Novecento e inizia il XXI secolo. Cosa ne pensa?
Su Cuba occorre avere l’onestà di uno sguardo giusto e vedere che cosa è riuscita a fare, nonostante un embargo durato cinquant’anni. Si parla sempre delle colpe di Fidel ma nessuno racconta cosa era Cuba prima e cosa gli Stati Uniti hanno fatto prima e durante i governi di Castro. Cuba è un simbolo per tutta l’America Latina perché è vista come paradigma di autodeterminazione dei popoli. Di Castro restano un grande senso dell’unità dei popoli e di lotta per la loro libertà, di resistenza di fronte all’oppressione delle grandi potenze.

Quale futuro vede per l’America Latina?
È un continente in cambiamento continuo. Cambiamenti positivi sono la ricerca della nostra sovranità della nostra libertà, come nel caso della Bolivia, o dell’Ecuador con Rafael Correa, in contrasto con una certa politica degli Stati Uniti che ha fatto di tutto per non perdere l’egemonia sul continente. Da qui sono nati colpi di Stato come in Honduras, Paraguay e Brasile. Ora bisogna vedere la politica di Trump, c’è da augurarsi che non accresca l’ingerenza nella vita degli altri popoli. Raul Castro ha aperto i rapporti con Washington e si sono schiuse grandi possibilità di collaborazione reciproca. La cosa migliore che può fare Trump in questo momento è cancellare l’embargo e trovare soluzioni ai problemi rispettando le differenze di ciascuno. Gli Stati Uniti devono avere un altro sguardo su Cuba e l’America Latina, non possono più comportarsi come nel passato, cioè risolvere i problemi mandando i loro soldati.

Trump ha detto che è intenzionato a non procedere sulla strada aperta da Obama, quindi nel migliore dei casi sembra non profilarsi un cambiamento della situazione. Quanto conta per i cambiamenti che tutti auspicano, come anche per la Chiesa, il mantenimento o la deroga dell’embargo?
Obama ha potuto a fare qualcosa ma non è riuscito a cancellare l’embargo. C’è da augurarsi che il nuovo presidente riconosca a Cuba il suo diritto alla autodeterminazione. Si tratta di un problema ideologico, ma gli Stati Uniti in questo modo fanno del male a se stessi perché gli imprenditori desiderano andare a Cuba, interessati a un miglioramento dei rapporti non solo politici ma anche economici. C’è un’opposizione tra due interessi, stiamo a vedere.

Quale potrebbe essere la via per una soluzione?
Quello che attualmente gli Stati Uniti fanno con la Cina. Con Cuba si può fare lo stesso. Ci sono concezioni diverse ma buoni rapporti economici. Trump ha conquistato il governo degli Stati Uniti ma il potere si trova nel complesso industriale militare e nelle grandi corporation. Dunque da Trump ci possiamo aspettare dei discorsi ma la realtà lo costringerà a una visione meno ideologica del mondo.

Quanto pesa sul destino di Cuba la questione degli esuli?
Mi hanno lasciato un’impressione negativa i festeggiamenti a Miami per la morte di Castro, è una questione di rispetto. Gli esuli negli Stati Uniti si sono sempre opposti alla rivoluzione perché hanno perso i loro privilegi. Certo, hanno influenza politica e un grande potere economico, soprattutto a Miami. Sono professionisti del dissenso al servizio degli interessi degli Stati Uniti. Penso però che siano un gruppo politicamente esaurito.


Nel febbraio 2018 Raul Castro lascerà. Cuba potrebbe ritornare a essere per gli Stati Uniti quello che era prima dell’era castrista?
Credo che non ci sarà alcuna marcia indietro. Le condizioni del mondo e del popolo cubano di oggi non sono quelle di ieri, c’è più coscienza politica, più coscienza unitaria. Certo, anche all’interno di Cuba ci sono contraddizioni. Queste sfide sono compito delle nuove generazioni, di quelli che daranno vita al cambiamento generazionale dopo Raul Castro. È evidente che Cuba ha bisogno di molti cambiamenti ma senza cedere nei progressi conquistati: l’educazione, le scienze, la medicina, la solidarietà internazionale.

Lei ha parlato spesso di 'golpe bianchi' e di come il potere della finanza internazionale e dei grandi capitali non solo influisce ma determina i governi e le loro economie vanificando di fatto la democrazia. È ancora vero? E come si può invertire la rotta?
Le democrazie in America Latina sono fragili. Molti credono che la democrazia consista semplicemente nel votare, che però è un esercizio democratico ma non è la democrazia. Democrazia significa diritti e uguaglianza per tutti. Dopo il fallimento dei regimi militari si è messo in moto un nuovo meccanismo per imporre o favorire governi complici in sudditanza con gli interessi della grande finanza: è quello che è successo in Brasile con Dilma Roussef. Paradossalmente, chi l’ha destituita accusandola di corruzione è in buona misura un gruppo di politici corrotti, che in questo momento lavorano per far passare un’amnistia e coprire i loro reati. L’attuale leader brasiliano Tener applica politiche neoliberiste con grandi benefici per le multinazionali, e al tempo stesso fa di tutto per seminare discredito sul governo precedente. Il momento storico ci impone di passare da una democrazia della delega a una della partecipazione. I golpe bianchi possono non violare i diritti umani ma certamente violano i diritti dei popoli, e non riguardano solo l’America Latina: è un modello che si tende ad applicare anche in altre situazioni e continenti, fino all’Europa.

Qual è l’obiettivo?
Scartare i popoli. A me sembra che il prossimo golpe che si prepara in America Latina possa essere contro Maduro in Venezuela, una ragione in più per potare al successo il dialogo iniziato tra le parti e risparmiare a questo popolo l’ultima sofferenza: il sequestro della sua democrazia.

Da qualche settimana è in corso il tentativo di negoziare tra governo e opposizione...
Il dialogo avviato in Venezuela, anche per richiesta di papa Francesco, è una speranza importante. Il Papa ha dato un buon contributo offrendo solidarietà, incentivando la creazione di ponti e sostenendo le parti. Sedersi attorno a un tavolo e discutere le differenze significa abbassare le tante tensioni nel Paese. Il dialogo fra il presidente e l’opposizione deve essere sostenuto da tutti affinché possano negoziare una soluzione giusta e duratura. C’è un intero popolo che sta soffrendo le conseguenze di queste tensioni, quindi è necessario arrivare a elezioni libere con un clima diverso da quello attuale. Il dialogo in corso dovrebbe gettare le basi di questo nuovo clima.

Lei è stato tra gli osservatori internazionali per il raggiungimento della pace in Colombia. Il dialogo, sulla scia di quanto costantemente ribadito anche dal Papa, ha portato all’accordo di pace. Ma quanto questo modello è seguito in altri scenari di conflitto?
Per papa Francesco i ponti vanno costruiti nella diversità dei popoli e non nell’uniformità. Il Papa sta dando così il suo contributo all’umanità, la sua voce è forse la più credibile in questo momento nel mondo. Questo è stato anche il suo contributo per il raggiungimento della pace in Colombia. Ho seguito da vicino questo processo, parlando con il presidente Santos e con tanti altri, e ho assistito alla rinegoziazione degli accordi. Adesso siamo in attesa dell’approvazione definitiva del nuovo accordo da parte del Parlamento. In Colombia però non basta firmare un accordo di pace.

Perché?
Il Paese ha moltissimi problemi da risolvere, seppure gradualmente. Uno molto grave è la questione degli sfollati interni: ci sono sette milioni di colombiani esuli all’interno del Paese e sei all’esterno. C’è anche il problema dei gruppi paramilitari e quello di molti giovani sequestrati e uccisi facendoli passare per guerriglieri: venivano rastrellati, spesso nelle discoteche, gli si faceva indossare una divisa della guerriglia e poi venivano uccisi per vantare meriti e fare carriera militare. In questo momento in Colombia c’è il forte timore che si possano uccidere i guerriglieri smobiliatati come già accadde quando dopo la firma della pace gruppi paramilitari eliminarono più di quattromila guerriglieri. Questo non si deve ripetere. La sfida principale della Colombia è l’unità politico-sociale della nazione per la vera pace. In questo compito nessuno deve sentirsi escluso, ma la condizione essenziale è che tutti devono essere disarmati, altrimenti è un progetto che non ha futuro.

In Argentina cresce l’impoverimento della classe media. Cosa può fare il governo Macri per questa situazione denunciata anche dalla Chiesa?
In Argentina il presidente applica una politica neoliberalista privilegiando la finanza rispetto alla vita quotidiana del popolo. Sono stati tagliati i fondi per l’educazione e la salute, ma purtroppo nel Paese non c’è un’opposizione con obiettivi e progetti alternativi. Stanno crescendo le mobilitazioni sociali al di fuori dei partiti, sembra che il governo si prepari a introdurre qualche misura di miglioramento economico almeno sotto le feste natalizie, perché teme qualcosa che abbiamo già vissuto: il saccheggio.


CHI È
In lotta per i diritti da mezzo secolo

Si autodefinisce un «resistente della speranza». Adolfo Pérez Esquivel, 85 anni appena compiuti, ha dedicato oltre cinque decenni alla lotta non violenta per la difesa dei diritti umani. In America Latina e nel mondo. Terzogenito di un immigrato spagnolo e di una indigena guaranì, il futuro attivista trascorre l’infanzia in povertà a Buenos Aires. Sperimenta sulla propria pelle l’esclusione a strutture ingiuste condannano gran parte della popolazione. E decide di ribellarsi. Avido lettore di Gandhi, negli anni in cui il Continente è scosso dai fermenti rivoluzionari, però, il cattolico Esquivel sceglie la battaglia non violenta. Per questo crea, nel 1973, la rivista “Paz y justicia” che presto si trasforma nel movimento Servicio paz y justicia (Serpaj). Durante l’ultima dittatura argentina (1976-1983), viene arrestato e torturato. Scampa per un soffio ai voli della morte ma resta in carcere 14 mesi. Là si imbatte nella frase, scritta con il sangue sul muro da un prigioniero, «Dio non uccide» che segnerà per sempre la sua esperienza di uomo e di credente. Per il suo impegno è stato insignito del Nobel per la Pace nel 1980. (Lu.C.)

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