
Ha scelto di bussare a tutte le porte per chiedere aiuto in nome del suo popolo. Un popolo-martire il cui grido di dolore da troppo tempo risuona inascoltato. Haiti non è solo uno dei pezzi più crudeli di quella terza guerra mondiale a pezzi ormai in atto. È metafora concreta dell’incapacità della diplomazia internazionale di vederla. E di trovare soluzioni politiche creative. Anzi, le recenti decisioni dell’Amministrazione Trump di tagliare gli aiuti alle nazioni povere e di espellere anche i 200mila haitiani entrati legalmente negli ultimi anni con un permesso umanitario, rischiano di aggravare ancor più la tragedia. Leslie Voltaire, però, non demorde.
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Il presidente ad hinterim di Haiti, Leslie Voltaire, è stato ricevuto in udienza dal Papa il 25 gennaio 2025 - VATICAN MEDIA Divisione Foto
Il presidente ad interim del Paese caraibico e del Consiglio di transizione creato lo scorso aprile per condurlo fuori dalla fase più grave dell’emergenza è umile quanto determinato. Sorride e ringrazia con sincera riconoscenza chi fra, politici, esperti, appassionati, si interessano alle sorti dei suoi connazionali. «Tutti e tutte sono invitati e benvenuti ad unirsi allo sforzo. Gli Stati e le persone di buona volontà», dice con voce mite l’ex architetto 76enne, già ministro durante i governi di Jean-Bertrand Aristide e René Preval, alternando il creolo e il francese all’inglese e allo spagnolo, lingue che parla alla perfezione. «Sto bussando a ogni porta – ripete –. Ma ho iniziato da quelle di quanti hanno dimostrato di avere a cuore Haiti». Per questo il presidente è venuto in Vaticano dove sabato è stato ricevuto da papa Francesco. «Il Santo Padre non si stanca di pregare per il mio popolo. Non lo ha mai dimenticato. Ogni mese chiama i vescovi haitiani per avere informazioni sull’evoluzione della situazione».
Di cosa avete parlato con il Papa?
Gli ho descritto la situazione gravissima. E gli ho chiesto di implorare, a nome degli haitiani, le Chiese – dell’America Latina, dell’America del Nord, dell’Europa – di aumentare gli aiuti per l’educazione, l’assistenza sociale, la salute. Gli ho domandato anche di farsi promotore di una conferenza internazionale di solidarietà per Haiti. Il Papa ha preso nota di tutto e lo stesso ha fatto il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, con cui mi sono incontrato successivamente.
Oltre a quella di papa Francesco, a quali altre porte ha deciso di presentarsi e bussare per prime?
A quella del presidente colombiano Gustavo Petro, sempre molto sensibile su Haiti. Sono stato in Colombia e gli ho chiesto di impiegare la sua flotta per fermare il flusso di droga con i cui soldi le bande armate comprano le armi dagli Usa e dalla Repubblica Dominicana per terrorizzare la popolazione. Ho domandato, inoltre, al presidente Emmanuel Macron di cooperare all’impegno colombiano con le navi che ha a Martinica e Guadalupa, dipartimenti d’oltremare francesi. Anche in questo caso, la droga non la consumano gli haitiani ma europei e statunitensi. Noi mettiamo il territorio come trampolino e i morti. Come Consiglio di transizione, abbiamo intenzione, infine, di tornare a breve in Italia per incontrare i rappresentanti del governo: stavolta non è stato possibile perché sono venuto espressamente per l’Udienza con il Santo Padre.
È possibile sconfiggere le gang che tengono in ostaggio interi frammenti di Paese tra cui Port-au-Prince?
Lo è. Un proverbio haitiano dice: «Il dialogo tra il gallo e lo scarafaggio finisce nella pancia del gallo». A lungo le bande armate hanno fatto la parte del gallo. Se, però, il mondo ci aiuta a rafforzare le nostre forze di sicurezza si può invertire il rapporto di forza.
La coalizione di gang, Viv Ansamble, guidata da Jimmy Chérizier alias Barbecue sostiene di voler negoziare con lle struttuire dello Stato… Non sono ribelli, sono banditi. Bruciano case, scuole, ospedali, uccidono in modo indiscriminato. Non hanno obiettivi politici: puntano solo a controllare il territorio per portare avanti ogni genere di traffico illecito.
La missione multinazionale a guida kenyana, cominciata quest’estate con l’arrivo dei primi agenti, non sembra avere prodotto risultati. È così?
Ci era stato promesso il dispiegamento di 2.500 agenti e militari. Addirittura, il Benin da solo voleva inviarne 3mila. Finora ne sono arrivati 800, meno di un terzo. Il fatto è che il Congresso a maggioranza repubblicana ha bloccato i fondi. Con così poche forze, dunque, la missione ha potuto svolgere solo operazioni mirate, in particolare nella zona dell’aeroporto e nella regione dell’Artibonite. Da parte nostra, cerchiamo di fare il possibile. Due settimane fa 739 nuovi poliziotti hanno terminato l’accademia e abbiamo reclutato altri 800 soldati. Da soli, però, non ce la possiamo fare. Per questo abbiamo chiesto alle Nazioni Unite di trasformare la forza multinazionale in una missione di mantenimento della pace che hanno un finanziamento garantito. Manca, però, ancora il consenso di Cina e Russia.
Che effetto può avere su Haiti il taglio dell’assistenza umanitaria deciso dall’Amministrazione Trump?
Si rischia una catastrofe. Sei milioni di haitiani, più della metà della popolazione, è alla fame. Le gang hanno interrotto le vie di comunicazione terrestri nel Paese. La capitale è isolata. E, dopo essere stato attaccato, anche l’aeroporto è chiuso. Questo ha fatto lievitare i prezzi di cibo, medicine, benzine. La tragedia in atto non ha fermato i rimpatri dalla Repubblica Domenicana che rimandano indietro 10mila persone alla settimana. Come possiamo raccogliere i 200mila emigrati negli Usa che ora rischiano l’espulsione?
Che cosa chiederebbe al presidente Trump se lo incontrasse?
Gli direi che gli haitiani amano il loro Paese. Lo lasciano perché sentono di non avere altra scelta. Se vogliono davvero fermare la migrazione e favorire i rimpatri, gli Usa dovrebbero finanziare la missione multinazionale per ripristinare la sicurezza. E dire agli investitori americani di creare lavoro nell’isola, impianti di trasformazione del cibo soprattutto, magari proprio lungo la frontiera con la Repubblica domenicana, in modo che la gente torni nel suo Paese in forma spontanea.
Il Consiglio di transizione si è impegnato ad organizzare elezioni entro l’anno. E lei ha annunciato il voto per novembre. Si riuscirà davvero ad andare alle urne?
Haiti vive una delle peggiori tragedie umanitarie al mondo di questo tempo. Eppure il mondo sembra incapace di rendersene conto. Per quale ragione?
Haiti è l’emblema delle contraddizioni del sistema capitalista. Il Paese più povero d’Occidente a un’ora e mezza da Miami. Credo amaramente che in fondo non si perdoni alla prima Repubblica nera della storia di avere di avere infranto il mito della supremazia bianca.
Secondo certa narrativa Haiti è oramai una causa persa…
Come può esserlo? È il luogo dove si è affermata la libertà per il mondo intero. Gli haitiani sono i figli più autentici della Rivoluzione francese e dei suoi ideali. L’hanno assunta appieno e resa davvero universale: non solo i diritti di una parte – i bianchi – bensì di ogni essere umano.
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