
L'irruzione dei blindati israeliani a Jenin - Reuters
E al terzo giorno la guerra tornò a dettare la sua marcia. Tregua a Gaza, attacchi in Cisgiordania. “Muro di ferro” si chiama la nuova operazione israeliana. Nelle stesse ore, a un giorno dalla cancellazione delle sanzioni americane, i coloni armati hanno assaltato diversi villaggi rurali minacciando la popolazione palestinese. Non è un assedio, ma non promette bonaccia. Il premier Benjamin Netanyahu assicura che è solo l’inizio. E anche se il capo di stato maggiore Herzi Halevi ha indicato marzo per le sue a lungo annunciate dimissioni, i raid in Palestina non si fermeranno. Il massacro del 7 ottobre è stato il peggiore investimento di Hamas a Gaza. La Striscia, vista ieri dai droni dell’Associated Press, appare perfino peggio di come era stata descritta perfino da chi ci sopravvive. Ma Hamas non era riuscita a ottenere la “fase 2” in Cisgiordania: il consenso a una rivolta anti-israeliana lungo tutta la Palestina, costringendo Tel Aviv ad affrontare un vasto fronte interno, spalleggiato dagli attacchi esterni orchestrati dall’Iran. Domenica notte, quando sono stati rilasciati a Ramallah i 90 detenuti palestinesi che hanno beneficiato dello scambio con tre ostaggi israeliani, di bandiere di Hamas se ne sono viste a centinaia. Ed è lì che ora l’incendio può tracimare. Ora che le macerie non nascondono più i moribondi di Gaza nascosti in qualche anfratto, sperando di schivare il fuoco incrociato e le bombe dell’aviazione. E basta niente perché chi confonde la giustizia con la vendetta possa decidere di fare a modo proprio. L’Autorità nazionale palestinese ha pessimi rapporti con il gruppo armato nella Striscia. L’indebolimento di Hamas in Cisgiordania non è mai stato argomento da togliere il sonno ai fedelissimi di Abu Mazen.
Il rischio di una reazione incontrollabile da parte delle folle di giovanissimi non è più solo una probabilità. “Muro di ferro” ha riacceso i toni degli estremisti da ambo i lati e anche le ricadute sulla tregua per Gaza non sono prevedibili. Se Hamas dovesse considerare i raid israeliani in Palestina come un attacco ai propri affiliati, avrebbe un pretesto facile per far tornare in bilico il cessate il fuoco, quando solo una minima parte di ostaggi è tornata in libertà. Le strade d’accesso a Jenin sono interrotte dai posti di blocco israeliani. Con le buone o con le cattive i soldati non lasciano passare. Il dispiegamento di mezzi e uomini è massiccio. L’arrivo dei caterpillar blindati conferma che le operazioni andranno avanti per ore, tra scontri a fuoco, retate e distruzione. Le forze di sicurezza israeliane «hanno lanciato oggi una vasta e significativa operazione militare per sradicare il terrorismo a Jenin», aveva annunciato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Una fonte militare ha confermato al Times of Israel che il raid su Jenin dovrebbe durare diversi giorni. Subito, le forze di sicurezza palestinesi si sono ritirate dal campo profughi.
L’operazione militare è iniziata con diversi attacchi di droni su infrastrutture che si ritiene siano utilizzate dai miliziani. Nelle retrovie israeliane la polizia ha arrestato una ventina di palestinesi in altre città della Cisgiordania, tra cui la giornalista di Hebron Farah Abu Ayyash. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa palestinese Wafa, gli arresti sarebbero avvenuti nelle aree di Hebron, Qalqilya, Ramallah e Nablus. Il portavoce ufficiale di Abu Mazen, Nabil Abu Rudeineh, ha dichiarato che «questi crimini commessi dalle milizie terroristiche coloniali e dall’esercito di occupazione fanno parte dell’aggressione in corso da parte dello Stato di occupazione israeliano contro il popolo palestinese». Della giornata di scontri resteranno, però, le parole del capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi. Dal 6 marzo non sarà più lui a dare gli ordini alle forze di difesa (Idf). «Stiamo per realizzare uno degli obiettivi più importanti della guerra, il ritorno dei rapiti. Siamo molto determinati e sappiamo per cosa stiamo combattendo: lo smantellamento di Hamas, di cui abbiamo eliminato 20mila miliziani, il rilascio degli ostaggi e il ritorno dei cittadini ai confini con Gaza». Ma questo è l’oggi. A pesare è il passato, per il quale la ricerca della verità non incontra i favori di chi governa. «La missione principale dell’Idf è proteggere il Paese. Abbiamo fallito in questo – ha detto il generale annunciando il congedo –. Lo porto e lo porterò con me per il resto della mia vita».