L'effetto dei raid sul porto di Latakia - Ansa
E non rimase più nessuno. Il titolo del giallo più famoso di Agatha Christie, innamorata del Medio Oriente e che viaggiò a lungo anche in Siria, si presta a sintetizzare il piano del premier israeliano Benjamin Netanyahu per quello che lui chiama «l'asse del male». Sono i suoi sette fronti di guerra contro altrettanti nemici di Israele: Yemen, Iran, Iraq, Siria, Libano, Cisgiordania, Gaza. Uno alla volta, li sta sconfiggendo.
Nel discorso rivolto alla nazione, ieri sera da Gerusalemme, è tornato a ripeterlo: il suo obiettivo è ridisegnare il volto del Medio Oriente. Dopo aver decimato Hamas a Gaza, l'azione militare è stata spostata sugli Hezbollah del Libano. Ridimensionata la minaccia libanese, anche grazie ai simultanei attacchi aerei sulla Siria da dove arrivavano le armi iraniane, è toccato al regime di Damasco. La cacciata di Bashar al-Assad, inimmaginabile solo un mese fa, è stata resa possibile da una concomitanza di interessi interni e internazionali, prima di tutto la spinta della Turchia al composito esercito di jihadisti e ribelli che ha conquistato Damasco quasi senza colpo ferire. Ma Netanyahu ne rivendica, a ragione, la paternità: il rovesciamento degli alawiti in Siria non sarebbe stato possibile, ora e in questi termini, senza la sconfitta militare degli altri due proxy dell'Iran. E Bibi, com'è chiamato il premier, ha citato come punti di svolta le uccisioni del capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, e del leader storico di Hezbollah, Hassem Nasrallah: «Il collasso del regime siriano è stato un diretto risultato dei colpi severi che abbiamo assestato a Hamas, Hezbollah e Iran. Vorrei metterlo in chiaro: ci aspettano altre sfide. Abbiamo lavorato in maniera metodica e prudente per smantellare l'asse del male. Non è accaduto da sé». E ha ripetuto la sua profezia: «Stiamo cambiando il volto del Medio Oriente. Lo Stato di Israele si sta ponendo come un cardine forte nella regione come non si era visto da decenni».
Quanto al futuro di Damasco, Netanyahu ha annunciato: «Vogliamo vedere una Siria diversa, di cui beneficeremo sia noi sia i suoi cittadini. La nostra mano è tesa a chi vuole vivere in pace, taglieremo la mano di chi vorrà farci del male». Fuor di metafora, Israele non sta inerte a guardare agli accadimenti di oltrefrontiera. Nell’immediato, due sono gli obiettivi: distruggere i siti di produzione e stoccaggio degli armamenti, perché non gli vengano usati contro; rivendicare la piena sovranità delle Alture del Golan annesse dopo la guerra del 1967 e crearsi una zona cuscinetto oltreconfine. «Il controllo delle Alture del Golan - ha detto Netanyahu - ci assicura la nostra sicurezza, la nostra sovranità». E ha ringraziato il presidente americano eletto, Donald Trump, per aver riconosciuto nel suo precedente mandato - era il 2019 - la sovranità israeliana sul Golan.
Poche ore prima, Netanyahu aveva visitato le truppe sul Golan e ordinato di intraprendere «le azioni necessarie a prevenire minacce alla nostra sicurezza». Per la prima volta dall'ottobre 1973, soldati con la stella di David sono scesi sul versante siriano del monte Hermon, nella zona cuscinetto demilitarizzata sotto il controllo delle Nazioni Unite in base all'accordo di disimpegno del 1974. Per il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, sarebbe una mossa «temporanea» motivata dalla necessità di «difendere i propri confini» dopo che il dissolto esercito siriano ha abbandonato le sue postazioni. «Ogni Paese sarebbe preoccupato - ha osservato - di un possibile vuoto sul confine che potrebbe essere riempito da organizzazioni terroristiche». «Sosteniamo tutte le parti - ha aggiunto - a rispettare l'accordo di disimpegno».
Mentre nel palazzo di governo a Damasco fervono i preparativi per l'esecutivo di transizione guidato da Muhammad al-Bashir, fedelissimo del capo dei jihadisti di Hts che hanno preso il potere, Ahmad Sharaa - com'è tornato a farsi chiamare deponendo il nome di battaglia di al-Jolani -, sono state seccamente smentite le voci di un'avanzata dell'esercito israeliano verso la capitale. Scaturite probabilmente dalla portata massiccia dell’offensiva aerea. Sui cieli della Siria, l’aviazione di Tel Aviv ha scatenato oltre cento attacchi: colpiti «aeroporti, installazioni radar, difesa aerea, strumentazioni della Marina, depositi di munizioni», riferisce l’Osservatorio siriano per i diritti umani, espressione da Londra dei ribelli delle forze democratiche. Colpito anche il centro di ricerca scientifica di Barzeh, a Damasco. Già bersaglio nel 2018 dei raid di americani, francesi e britannici, sarebbe legato alla sospetta infrastruttura di armi chimiche. Come fa notare lo stesso Osservatorio siriano, «il piano di Israele è che la nuova Siria abbia a disposizione solo armi semplici». In un report, ha contato più di 320 raid in 48 ore. Fonti militari citate dai media confermano attacchi missilistici contro la flotta navale, nella baia di Minet el-Beida e nel porto di Latakia dove ha sede una base dell'aviazione russa.
La longa manus di Tel Aviv sulla Siria ha suscitato l'alzata di scudi di Ankara. Il ministero degli Esteri turco ha condannato l'avanzata nella zona cuscinetto del Golan denunciando che «Israele mostra ancora una volta la sua mentalità di occupazione». Reazione simile da parte di Teheran, che ha criticato il «silenzio dei Paesi occidentali" sulle «violazioni delle leggi internazionali» da parte di Tel Aviv.