martedì 10 gennaio 2017
Era un maestro nel tessere legami e alleanze per fronteggiare la deriva autoritaria nella Repubblica islamica. Spinse per l'accordo sul nucleare con gli Stati Uniti, firmato dal presidente Rohani
Il presidente iraniano Rohani rende omaggio alla bara di Rafsanjani (Ansa)

Il presidente iraniano Rohani rende omaggio alla bara di Rafsanjani (Ansa)

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Destino beffardo per l’ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, l’ex presidente della Repubblica islamica dell’Iran morto domenica a Teheran: per anni oggetto dell’odio politico dei riformisti iraniani più accesi, dopo l’ascesa degli ultra-radicali e la brutale repressione del 2009 aveva finito per divenirne il nume tutelare dietro le quinte.

Aveva contribuito a fondare la Repubblica islamica, assurgendone ai vertici, in qualità di uno dei più fidati collaboratori di Khomeini, ma da tempo era oggetto dei continui attacchi dei conservatori più radicali e dei pasdaran che pure aveva aiutato e sostenuto durante la lunga guerra con l’Iraq (1980 - 1988). Compagno della prima ora del leader supremo Ali Khamenei, ormai da anni si scontrava con lui per la gestione interna del sistema di potere e per la durezza con cui si mortificavano le aspirazioni alle piccole libertà quotidiane degli iraniani. Agli occhi di questi ultimi, tuttavia, egli rappresentava l’emblema della degenerazione del ceto religioso sciita, corrotto da decenni di gestione diretta del potere e dell’economia. La crescente e sospetta ricchezza della sua famiglia, legata al commercio dei pistacchi, è stato sempre oggetto di esagerazioni, ricostruzioni fantasiose e battute sarcastiche fra la popolazione comune. Insomma, Rafsanjani è stato spesso il parafulmine degli umori del potere e del popolo. Non che egli fosse esente da critiche più che motivate: non si sopravvive, del resto, al livello di potere da lui raggiunto – nei tortuosi e pericolosi meandri della politica iraniana – senza sporcarsi pesantemente le mani e senza essere spregiudicati. E pochi come lui sapevano usare cinicamente il tatticismo politico, gli intrecci familiari e clientelari per il proprio tornaconto. Un politico abile nel muoversi dietro le quinte, del virare ora verso i conservatori ora verso i riformisti, cercando sempre di mantenersi al centro della scacchiera politica. Eppure, non vi è dubbio che moderati e riformisti sentiranno molto la sua mancanza, soprattutto in questi mesi così delicati, prima delle nuove elezioni presidenziali previste per il mese di maggio. La sua morte, per quanto non imprevista vista l’età, priva così il presidente Rohani di un sostenitore e di un “protettore” dalle manovre della parte peggiore del regime.

Rafsanjani era infatti l’unico a poter accusare pubblicamente i pasdaran di “fascismo islamico” e l’unico a poter parlare schiettamente a Khamenei, per frenarne l’ostilità contro i riformisti. Ma era anche un maestro nel tessere legami e alleanze fra movimenti molto lontani fra loro, per fronteggiare la deriva autoritaria di parte nizam, come viene chiamato il sistema di potere della Repubblica islamica. E anche se gli ultraconservatori, al di là della retorica ufficiale, non piangeranno certo la sua dipartita è evidente come la scomparsa di Rafsanjani renderà più difficile evitare che le tensioni dentro una élite politica sfilacciata e frammentata non indeboliscano la Repubblica islamica stessa. Soprattutto adesso, che sta per prendere il potere a Washington l’Amministrazione Trump, caratterizzata da uomini ossessivamente e pregiudizievolmente ostili a Teheran.

Il vecchio Rafsanjani aveva per molti anni favorito i contatti – più quelli segreti che quelli ufficiali – con gli Stati Uniti e l’Occidente, spingendo da tempo per raggiungere il compromesso sul nucleare ottenuto poi dal presidente Rohani. Accordo che Trump, con una scelta scellerata, vuole distruggere a ogni costo. Questo inizio di 2017 si porta via così, nel momento meno opportuno, un personaggio cruciale, per quanto non amato e certo controverso, per gli incerti equilibri interni iraniani.

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