Il silenzio che fa più rumore resta quello di Erdogan
Il leader turco è uno dei registi del nuovo ordine regionale, tra mire sulla Siria e prudenza verso Israele. Ora la sua storica vicinanza alla causa palestinese fa i conti con la debolezza di Hamas

In mezzo a tanto rumore, c’è un silenzio che spicca. È quello del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Il numero uno di Ankara si è sempre proposto come alfiere della causa palestinese, esponendosi spesso, verbalmente e concretamente, molto più di tanti altri Paesi nell’area, nell’intento di diventare un punto di riferimento per tutto il mondo musulmano sunnita. Difficile dimenticare il suo “one minute” a Davos nel gennaio 2009, quando davanti all’allora presidente israeliano, Simon Peres, denunciò le condizioni del popolo palestinese dopo l’operazione Piombo Fuso, con la quale Tel Aviv rispose agli attacchi di Hamas.
Fu soltanto l’inizio di un lungo cammino che lo portò a essere idolatrato sulla Striscia di Gaza come una rockstar. La “consacrazione” arrivò l’anno successivo, quando la Mavi Marmara, una delle imbarcazioni che componevano la Freedom Flottiglia, partì da Istanbul per portare viveri alle popolazioni che vivevano sulla Striscia e fu attaccata dalla Marina israeliana in acque internazionali, con la morte di nove persone. Da quel momento, Erdogan non ha perso occasione per attaccare Israele, interrompendo formalmente le relazioni diplomatiche a più riprese fino alla decisione, nel maggio 2024, di interrompere anche le relazioni commerciali, anche se, in realtà, il volume di scambi fra i due Paesi è rimasto pressoché inalterato. Un atteggiamento, il suo, dovuto anche alla vicinanza fra il leader turco e l’organizzazione di Hamas. Entrambi fanno capo ai Fratelli musulmani, di cui Erdogan è considerato l’espressione politica maggiormente di successo. Il numero uno di Ankara, in passato, è stato anche accusato di aver finanziato illegalmente alcune infrastrutture che l’organizzazione terroristica ha utilizzato nella sua guerra contro Israele, in primis i tunnel di collegamento, distrutti in seguito al massacro del 7 ottobre.
Dopo questa data, destinata a cambiare il corso del Medio Oriente, se in un primo momento Erdogan si è mostrato sempre più assertivo nei confronti dello Stato ebraico, con il passare del tempo la sua posizione è diventata sempre più prudente, essenzialmente per due motivi. Il primo è stato determinato dal progressivo indebolimento dell’Iran e la conseguente caduta del regime di Bashar Al-Assad in Siria. Il “Reis” ha intravisto un’opportunità di espandere la sua influenza nel nord del Paese, anche grazie al rapporto preferenziale con il nuovo leader di Damasco, Ahmed al-Sharaa. Il secondo, strettamente correlato, è stato l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Erdogan è ben consapevole dell’amicizia del tycoon con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e ha da tempo capito che quell’apparente silenzio-assenso probabilmente cela la piena approvazione dei piani del numero uno di Tel Aviv. La virata è stata la firma, qualche giorno fa, della dichiarazione dove si condannavano gli eventi del 7 ottobre e la richiesta ad Hamas di disarmarsi e lasciare per sempre il controllo sulla Striscia.
Erdogan ha capito che l’organizzazione ha le settimane contate e gli Stati Uniti sono un partner troppo importante per fare di testa propria, così, a partire dall’insediamento alla Casa Bianca, Erdogan è stato uno dei leader più collaborativi. Troppi gli argomenti sul tavolo, oltre alla già citata Siria. I dazi sull’acciaio e l’alluminio turchi, la presenza di Ankara in Ucraina dopo la fine della guerra, la ricostruzione di Gaza. Tutti temi di importanza fondamentale per un’economia turca che sta mostrando cenni di debolezza sempre maggiori. Ai palestinesi si tornerà a pensare quando saranno nuovamente convenienti.
Fu soltanto l’inizio di un lungo cammino che lo portò a essere idolatrato sulla Striscia di Gaza come una rockstar. La “consacrazione” arrivò l’anno successivo, quando la Mavi Marmara, una delle imbarcazioni che componevano la Freedom Flottiglia, partì da Istanbul per portare viveri alle popolazioni che vivevano sulla Striscia e fu attaccata dalla Marina israeliana in acque internazionali, con la morte di nove persone. Da quel momento, Erdogan non ha perso occasione per attaccare Israele, interrompendo formalmente le relazioni diplomatiche a più riprese fino alla decisione, nel maggio 2024, di interrompere anche le relazioni commerciali, anche se, in realtà, il volume di scambi fra i due Paesi è rimasto pressoché inalterato. Un atteggiamento, il suo, dovuto anche alla vicinanza fra il leader turco e l’organizzazione di Hamas. Entrambi fanno capo ai Fratelli musulmani, di cui Erdogan è considerato l’espressione politica maggiormente di successo. Il numero uno di Ankara, in passato, è stato anche accusato di aver finanziato illegalmente alcune infrastrutture che l’organizzazione terroristica ha utilizzato nella sua guerra contro Israele, in primis i tunnel di collegamento, distrutti in seguito al massacro del 7 ottobre.
Dopo questa data, destinata a cambiare il corso del Medio Oriente, se in un primo momento Erdogan si è mostrato sempre più assertivo nei confronti dello Stato ebraico, con il passare del tempo la sua posizione è diventata sempre più prudente, essenzialmente per due motivi. Il primo è stato determinato dal progressivo indebolimento dell’Iran e la conseguente caduta del regime di Bashar Al-Assad in Siria. Il “Reis” ha intravisto un’opportunità di espandere la sua influenza nel nord del Paese, anche grazie al rapporto preferenziale con il nuovo leader di Damasco, Ahmed al-Sharaa. Il secondo, strettamente correlato, è stato l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Erdogan è ben consapevole dell’amicizia del tycoon con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e ha da tempo capito che quell’apparente silenzio-assenso probabilmente cela la piena approvazione dei piani del numero uno di Tel Aviv. La virata è stata la firma, qualche giorno fa, della dichiarazione dove si condannavano gli eventi del 7 ottobre e la richiesta ad Hamas di disarmarsi e lasciare per sempre il controllo sulla Striscia.
Erdogan ha capito che l’organizzazione ha le settimane contate e gli Stati Uniti sono un partner troppo importante per fare di testa propria, così, a partire dall’insediamento alla Casa Bianca, Erdogan è stato uno dei leader più collaborativi. Troppi gli argomenti sul tavolo, oltre alla già citata Siria. I dazi sull’acciaio e l’alluminio turchi, la presenza di Ankara in Ucraina dopo la fine della guerra, la ricostruzione di Gaza. Tutti temi di importanza fondamentale per un’economia turca che sta mostrando cenni di debolezza sempre maggiori. Ai palestinesi si tornerà a pensare quando saranno nuovamente convenienti.
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