martedì 3 marzo 2020
Grazie ai volontari, in 350 riescono ad accedere ad esami e cure: «Ma con il coronavirus, a morire saranno i diseredati»
La protesta di un gruppo di medici a San Diego per il ripristino delle procedure semplificate per l'asilo ai migranti

La protesta di un gruppo di medici a San Diego per il ripristino delle procedure semplificate per l'asilo ai migranti - Ansa

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«Dai, forza, che fra poco ci fanno entrare». Abbra Turner tira per un braccio Molly, la figlia più grande, accovacciata ai suoi piedi con i due fratellini in un mucchietto di gambe, braccia e cappucci tirati sul viso. La ragazzina la guarda assonnata e cerca di alzarsi in piedi, trascinando con sé Dean, che nasconde la testa nella felpa, come una tartaruga. È marzo a San Diego, ma la temperatura mattutina può far rabbrividire, soprattutto se si è passata la notte all’addiaccio per garantirsi un posto in un ospedale da campo. Per Abbra e i tre figli è un rito annuale obbligato. Se non fosse per i volontari dell’organizzazione non profit Remote Area Medical, i bambini non avrebbero gli occhiali e non sarebbero vaccinati e la 39enne non potrebbe prendere le pastiglie per l’ipertensione o, quest’anno, farsi togliere un dente che la tortura da settimane. È infatti solo qui, in un vecchio terreno industriale alle porte di una delle città più ricche d’America, e solo grazie a un esercito di volontari, che centinaia di persone la cui unica assicurazione sanitaria è la speranza di non ammalarsi possono farsi vedere da un dentista o un oculista, o scoprire se hanno contratto un innocuo raffreddore o il covid 19.

Le grandi tende bianche, i tanti lavandini e le dozzine di infermiere che si muovono rapide contribuiscono a creare un’atmosfera di organizzata efficienza in questo lotto dismesso, che avrebbe più senso se si trattasse di una regione colpita da un disastro naturale o di una zona di guer- ra. Non della California nel 2020. Un volontario della guardia nazionale raggiunge a grandi passi il gruppo in attesa vicino a un cancello e con un megafono comincia a contare le persone che gli sfilano davanti. Gli aspiranti pazienti ammutoliscono, sembrano smettere di respirare. Se non rientrano nei primi 350, dovranno andare a cercare cure altrove, aspettare un anno, o rinunciare. Un anziano si avvicina all’uomo in divisa e gli spiega che ha il fiato corto e ha bisogno di ossigeno. Un giovane con un bambino in braccio, più avanti nella fila, gli cede il suo posto. Gli altri restano in silenzio a testa bassa. «Sono già stato a molti di questi eventi. L’anno scorso mi hanno tolto otto denti – dice Robert, 56 anni, fra i primi in coda –. Quest’anno non potevo rischiare di non entrare perché ho il cancro ai polmoni e non posso permettermi la chemioterapia. Spero che mi mandino a una delle loro cliniche a basso prezzo o che mi diano delle pastiglie gratis». Un vecchio magazzino è stato trasformato nell’accettazione dell’ospedale da campo. Una ventina di addetti registra le informazioni dei pazienti prima di indirizzarli verso gli infermieri che li smistano in base ai sintomi. A un’estremità dell’enorme deposito sono riuniti gli psichiatri, all’altra i dietologi. Ma Abbra, che è riuscita ad entrare, si dirige prima di tutto verso il reparto di ottica. In una tenda fra l’ortopedia e la ginecologia, un oculista esamina la vista dei tre bambini, mentre un volontario mostra loro una tavola piena di occhiali. Molly sorride quando vede una montatura rossa. Come circa 30 milioni di altri americani, Abbra non ha un’assicurazione sanitaria. Cassiera di un supermercato, guadagna troppo per avere diritto a Medicaid, la mutua gratuita per i poveri, ma non abbastanza per poter acquistare un piano di assicurazione sanitaria sovvenzionato da Obamacare. Nonostante il sollievo di poter fare tutti i controlli di cui ha bisogno in un fine settimana, non le sfugge l’assurdità che un sistema sanitario in larga parte privato e a scopo di lucro costringa milioni di persone come lei a dipendere dalla buona volontà di medici e associazioni caritatevoli per farsi curare, nella nazione più ricca del mondo.

La sanità è già un tema caldo della campagna elettorale in corso. Ma persino fra i candidati democratici, solo due, Elizabeth Warren e Bernie Sanders, propongono quello che gli Stati Uniti non hanno mai avuto: la sanità gratis per tutti. «Sono molto grata che questo esista, ma l’assistenza sanitaria in America fa schifo e adesso che c’è questo virus in giro, non so come farà la gente come me che non può andare all’ospedale a farsi fare un test». La preoccupazione è condivisa da Steven Gardner, specialista in malattie infettive che offre la sua opera gratuitamente all’ospedale da campo, e che ammette che l’assenza di servizi gratuiti di base renderà l’epidemia meno facile da identificare e da contenere. In un nosocomio americano, infatti, un tampone nasale e un esame del sangue possono costare fino a tremila dollari. E la maggior parte delle polizze assicurative ne copre al massimo i due terzi. In un Paese dove, stando all’Università di Chicago, il 44% delle persone lo scorso anno non è andato dal medico perché costava troppo e dove solo il 57% dei lavoratori gode di un’assicurazione sanitaria aziendale, l’inquietudine di Gardner appare ovvia. «Una persona senza copertura sanitaria è già esposta a una serie di patologie facilmente prevenibili e ha in media un’attesa di vita più bassa della popolazione assicurata. In caso di un’epidemia, sarà la categoria più vulnerabile, perché sono pazienti che non andranno dal medico o all’ospedale a meno che non siano estremamente malati».

I volontari di Remote Area Medical quest’anno, infatti, oltre a dare consigli d’igiene e di alimentazione, ripetono a ogni paziente che se ha sintomi influenzali con problemi respiratori, non deve esitare ad andare al pronto soccorso. Ma il fatto che il segretario alla Salute, Alex Azar, abbia rifiutato di impegnarsi a imporre controlli sui prezzi in caso di epidemia, «perché abbiamo bisogno che il settore privato investa», rischia di svuotare le loro parole di senso. Se le cose non cambiano, sanno bene che in pochi seguiranno le loro indicazioni. Abbra esce da una tenda e sorride, con un dente in meno. «Una giornata come questa mi ridà fede nella gentilezza dell’umanità – dice –. Ora spero solo che questo maledetto virus non ci faccia ammalare tutti, perché se si diffonde davvero, in America a morire saranno gli stessi che muoiono più di tutti di diabete, di infarto e di cancro: i più poveri».

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