sabato 22 gennaio 2022
Atacama è inondato da centinaia migliaia di tonnellate di abiti usati inviati da Europa, Usa e Canada. Una nuova legge cerca di arginare l'emergenza ambientale
Ogni anno 39mila abiti vengono gettati illegalmente nel deserto

Ogni anno 39mila abiti vengono gettati illegalmente nel deserto

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In bilico tra l’Oceano e le Ande, è il «luogo del sogni». Iquique appunto, in lingua Aymara, la porta sul «Padre deserto», come lo chiamava la Nobel Gabriel Mistral. Un’infinita distesa di rocce, il territorio più arido al mondo, eppure capace di fiorire, ogni anno, in un’esplosione di porpora acceso. Non sono, però, le celebri rose a ricoprire ora, per chilometri, il deserto di Atacama, nel Nord del Cile. Bensì una coltre spessa di stoffa multicolore. Magliette, pantaloni, gonne, cappelli sparsi alla rinfusa tra le dune o accumulati in bizzarre montagne di tessuto. Decine di migliaia di abiti nati già in fin di vita dall’industria della moda “mordi e fuggi” o “fast fashion”, dove tutto si crea a ciclo continuo ma niente si distrugge. Semplicemente si scarta e si accumula in punti apparentemente remoti del pianeta. Come lo spazio tra Iquique ed Alto Hospicio trasformato nel «cimitero mondiale dei vestiti».
Una discarica illegale, ufficialmente. Eppure tutti la conoscono. «Esiste da una quindicina d’anni – racconta Rosita Marschhausen, responsabile dell’area sociale di Caritas della diocesi di Iquique – ed è alquanto evidente. Anche perché ciclicamente i vestiti vengono bruciati per smaltirli e il fumo tossico investe la cittadina di Alto Hospicio. La gente si lamenta, poi la situazione torna come prima». E il serpente di stoffa si allunga per l’altopiano desertico. Un crocevia quest’ultimo dove le contraddizioni delle leggi nazionali si sommano alle disfunzioni del mercato globale. Atacama è la destinazione finale delle centinaia di migliaia di abiti usati confezionati a basso costo nelle fabbriche-pollaio dell’Asia per rifornire i negozi di Stati Uniti ed Europa. Roba di scarsa qualità che gli acquirenti indossano per una stagione e, poi, preferiscono gettar via piuttosto che rammendare. Comprare un prodotto nuovo «made in China» o «made in Bangladesh» costa meno. Gli abiti vecchi vengono etichettati come «seconda mano» e portati dove possono venduti ancora o, in caso contrario, dismessi senza troppe formalità. A bordo di navi container raggiungono, dunque, Iquique, il principale porto d’entrata del tessile dell’America Latina. Non solo quell’area è zona franca. A differenza del resto del Continente che lo vieta per ragioni sanitarie o di protezione delle aziende locali, il Cile, insieme al Guatemala, è l’unico a importare roba usata in gran quantità. Solo nel 2021, per lo scalo, ne sono passate 59mila tonnellate. Un dato in linea con la media annuale. Oltre i due terzi – circa 39mila tonnellate – restano invenduti. Non è un caso. Buona parte della merce che arriva è rovinata. Le aziende importatrici lo sanno. Ma sanno anche che, accettandola, otterranno i vestiti buoni a un prezzo stracciato dalle imprese del Nord del mondo, ansiose di scaricare altrove i propri rifiuti. Tanto c’è il buco nero di Atacama.
Le discariche legali non accettano abiti, in base al decreto 189 del ministero della Salute, perché dannosi per il suolo. Le autorità chiudono, però, un occhio o – tutti e due – quando questi vengono abbandonati dove si può fingere di non vederli. Atacama, così, s’è trasformato nel “nascondiglio a cielo aperto” perfetto. Secondo la Segreteria per l’ambiente, in tutto il deserto ci sarebbero almeno 45 punti di scarico clandestini. Solamente in quello tra Iquique e Alto Hospicio si accumulerebbero almeno 500mila tonnellate di vestiti. Una quantità tale da portare Atacama a insidiare il primato dell’altra maxi-pattumiera della moda del globo: la periferia di Accra, in Ghana. Questi «cimiteri di vestiti» sono il volto scomodo della “fast fashion” diventata ormai “trash fashion”, moda spazzatura. L’Onu aveva già lanciato l’allarme due anni fa: la fabbricazione di abiti è raddoppiata tra il 2000 e il 2014. Per vari esperti, ciò è dovuto al progressivo abbassamento dei costi di produzione. Una notizia tutt’altro che positiva, sia per la manodopera, sia per l’ambiente. L’industria tessile impiega almeno il 20 per cento di sostanze chimiche del globo e consuma il 20 per cento dell’acqua. Alla produzione di indumenti e calzature, inoltre, si deve l’8 per cento delle emissioni attuali. A questo si aggiunge il dramma dei rifiuti dato che, secondo un recente studio di Mohd Yusuf, tre quinti del totale viene buttato entro un anno dall’acquisto. «L’unica via d’uscita è promuovere il riciclo», afferma Franklin Zepeda che, sulla base dell’esperienza della discarica di Atacama, ha fondato di Ecofibra, azienda che trasforma i residui tessili in pannelli isolanti.
«A lungo c’è stato un vuoto legislativo: i vestiti non erano considerati merci prioritarie, a differenza, ad esempio, della plastica, il cui smaltimento è a carico dell’azienda importatrice, pena il pagamento di multe salate. Questo ha fatto sì che per le imprese fosse più economico disfarsi degli abiti, gettandoli nel deserto, dove eludere i controlli è relativamente facile – prosegue Zepeda, imprenditore visionario –. Ora, però, la situazione sta cambiando: a settembre, il ministero dell’Ambiente ha inserito il tessile nella normativa sul riciclaggio e la responsabilità etica del produttore. Un passo avanti fondamentale». La nuova misura dovrebbe essere applicata a partire dal 2023. Nel frattempo, la discarica di Atacama resta in attività.

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