La Cop30 in fiamme: il video dell'incendio e l'evacuazione generale
di Lucia Capuzzi, inviata a Belém
A fuoco uno stand: il fuggi fuggi dei partecipanti, la colonna di fumo visibile dall’esterno. Non ci sarebbe nessun ferito secondo il ministro brasiliano del Turismo

La metafora è banale quanto eloquente. Come solo la realtà sa essere. Il tempismo, del resto, non poteva essere migliore. Il fuoco è divampato nel giorno più difficile della Conferenza Onu sul clima (Cop30). Quello in cui il piano costruito con pazienza certosina in un anno e mezzo di lavoro diplomatico dal presidente André Corrêa Do Lago rischiava di andare in fumo. Nemmeno una notte e un giorno di negoziati non stop avevano scalfito il muro dei petro-Stati – Arabia Saudita in primis – contro l’inclusione di una roadmap per la transizione dei combustibili fossili nella decisione conclusiva. La nuova bozza, attesa a metà mattina, non era ancora arrivata a pomeriggio inoltrato. Nel frattempo, il segretario generale, Antônio Guterres, tornato in tutta fretta a Belém, aveva lanciato un drammatico appello agli Stati presenti a impegnarsi «in buona fede» per salvare il pianeta e l’umanità. Poco dopo, l’incendio è scoppiato nel cuore della “Blue zone”, il centro delle trattative, tra il padiglione della Gioventù e quello dell’Italia, costringendo i delegati a una precipitosa fuga. Non se ne conoscono le cause ma non sembra di origine dolosa.
«Solo una persona molto malvagia potrebbe voler bruciare una Cop», ha detto il ministro del Turismo, Celso Sabino. Non ci sono stati feriti: i danni appaiono contenuti. Difficile, però, non cogliere un’ironia sottile e tragica nella vicenda. Proprio come quella dei diluvi amazzonici di intensità inedita che hanno accompagnato i negoziati, ogni pomeriggio, per due settimane. Finora, però, né le “coincidenze” né l’indiscussa abilità diplomatica di Corrêa do Lago ha piegato la volontà di Big Oil e del suo esercito di lobbysti, schierati in numero record al summit. Segno che, contrariamente a certa vulgata, i vertici ambientali non sono proprio inutili. L’oggetto del contendere è ovviamente l’addio a petrolio, gas e carbone. Ci sono volute ventotto Cop per poterlo menzionare, a Dubai. Poi Baku aveva glissato e il dossier era rimasto là, scritto nero su bianco ma senza modo di passare dalla carta alla realtà. Belém, in teoria, non doveva tornare sulla questione. Il Brasile, però, ha cercato il “colpo di scena”: fondamentale mandare un segnale forte a Donald Trump di tenuta del multilateralismo e della sua capacità di risolvere insieme i problemi globali. “Mutirão” – sforzo comune in vista dell’obiettivo – è scritto ovunque a Belém: nei manifesti, nei murales, nei documenti ufficiali. Il Gigante del Sud ha puntato sulla complessità di un mondo in ridefinizione e sulla capacità di parlare con tutti. Del resto, il Brasile gioca su due tavoli, in quanto produttore di idrocarburi e, al contempo, Paese impegnato nella transizione energetica. La strategia si è basata sul gioco di sponda dei tre strateghi. Il navigato Corrêa do Lago, innanzitutto, che ha avocato a sé le questioni più controverse – in particolare finanza per aiutare le nazioni povere ad adattarsi alla crisi, trasparenza e divario tra i piani nazionali di taglio delle emissioni e l’urgenza di contenere il riscaldamento globale – e le ha trasformate in un pacchetto politico da approvare oltre a quello tecnico. Là ha infilato il nodo di una roadmap per la fine dell’era fossile. Marina Silva – l’altro motore della “shuttle diplomacy” brasiliana – ha rilanciato, creando una coalizione di 82 Stati sostenitori, tra cui quasi tutti gli europei. L’Italia, al principio contraria come la Polonia, è rientrata nei ranghi solo ieri e l’Ue ha potuto fare blocco compatto per l’iniziativa. L’ultima spinta avrebbe dovuto darla il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, rientrato due giorni fa a Belém sulla via per il G20 in Sudafrica. Il ritorno di un capo di Stato non si vedeva dal 2015 quando François Hollande si recò al vertice di Parigi: il risultato sono stati gli storici Accordi di dieci anni fa. Lula, negoziatore per antonomasia, non è riuscito a ripetere l’impresa. Per il momento. Nel giro di 24 ore ha, però, sciolto vari nodi. Prima ha incontrato la Cina su cui punta per convincere i soci dei Brics: India, Russia e, soprattutto, Arabia Saudita. Ancora più dura perché conta sull’appoggio Usa. A tutti ha ribadito che l’idea non è quella di costringere i Paesi a fare qualcosa. La roadmap si ispira ai piani nazionali decisi a Parigi: degli impegni di transizione da presentare a scadenza periodica ma elaborati in totale autonomia. Infine, prima di ripartire, Lula ha chiesto – e ottenuto – il sostegno di Bruxelles. La palla è tornata a Corrêa do Lago. Riunioni, dentro e fuori le stanze riservate, erano in pieno svolgimento quando l’incendio ha costretto a evacuare la “Blue zone”.
L’ipotesi di plenaria è saltata. Il che ritarda i lavori. Ma, allo stesso tempo, dà alla presidenza brasiliana margini per agire lontano dai riflettori. Oggi – incidenti permettendo – si ricomincia. La Cop non ha chiuso in anticipo come voleva Corrêa do Lago. Forse si concluderà nei tempi o andrà, come tutte le ultime volte, ai supplementari. L’importante ormai non è quando ma come – ripetono fonti vicine alla presidenza del summit –, cioè con qualcosa di rilevante. E quel qualcosa sono i combustibili fossili.
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