Israele ha davvero vinto? Ecco cosa si dice a Tel Aviv
Il dibattito sull'esito dell'operazione in Iran si incrocia con le domande sul futuro di Netanyahu, visti anche i processi in corso. «Il premier ha davanti due vie e potrebbe ancora prendere tempo»

«Un fatto storico: abbiamo mandato a rotoli il programma nucleare iraniano». «Un successo decisivo, uno schiaffo in faccia all’America». I toni enfatici sono i medesimi. I contenuti specularmente opposti. A pronunciare le due frasi, a 48 ore di distanza l’uno dall’altro, sono stati, rispettivamente, Benjamin Netanyahu e Ali Khamenei. I due irriducibili nemici discordano su tutto tranne che sulla necessità di ostentare la vittoria. La propria, ovviamente. Se la Guida suprema ci ha messo due giorni per uscire dal bunker dove è stato costretto a rifugiarsi dai raid di Tel Aviv e a riparlare la nazione, il premier israeliano ripete la propria versione in modo martellante fin da quando Donald Trump ha annunciato, all’alba di martedì – scavalcando le parti –, il cessate il fuoco. Man mano che passa il tempo, però, il “leitmotiv del trionfo” viene offuscato dalle ombre sui reali risultati del conflitto. «Prima di chiederci se la guerra con l’Iran sia stata un successo, dovremo domandarci come ci siamo arrivati. I fatti del giugno 2025, al contrario di certe narrazioni, non erano “inevitabili”. Che cosa avremmo potuto fare per creare uno scenario in cui Teheran non fosse una minaccia? Se Trump, durante il primo mandato, su spinta di Netanyahu, non fosse uscito dall’accordo nucleare siglato nel 2015, lo scontro militare avrebbe potuto essere scongiurato. L’attacco, poi, è avvenuto mentre era in corso un nuovo negoziato tra l’Iran e gli Usa. Il governo israeliano avrebbe potuto quantomeno non remare contro», afferma Eran Etzion, diplomatico ed esperto di strategia militare che segue il dossier iraniano da decenni.
«Nei dodici giorni di ostilità è stato facile sedurre l’opinione pubblica con l’esibizione della forza militare: scienziati uccisi, istallazioni colpite, simboli del regime distrutti. Ora, però, è il tempo delle domande. E le risposte non sono affatto nette. Il programma nucleare iraniano ha subito danni, anche pesanti. Ma non è stato “obliterato” per parafrasare il presidente Usa. Oltretutto non si sa che fine abbiano fatto i 400 chili di uranio arricchito nelle mani di Teheran. Improbabile che si trovassero a Fordow, chiaro obiettivo statunitense. E anche se fossero stati là, che ne è stato?», sottolinea Alon Pinkas, diplomatico e scrittore, consulente per la politica estera di Ehud Barak e Shimon Peres, nota firma del quotidiano Haaretz.
Etzion, ex vicedirettore del Consiglio di sicurezza nazionale, la pensa allo stesso modo. «Né il programma nucleare né quello per i missili a lungo raggio sono stati azzerati. Teheran ha la capacità tecnica e la conoscenza per ricostruirli. Lo farà e con più slancio? O il conflitto, come vuole presentarlo Netanyahu, favorirà un’intesa diplomatica? Al momento non possiamo dirlo. È ragionevole che l’Iran – e altri Paesi del Medio Oriente – consideri la bomba atomica e un massiccio riarmo come l’unica garanzia per difendersi dagli attacchi di Israele e Usa. In questo caso, la guerra sarebbe stata un fallimento. È anche possibile, anche se non ci credo molto, che Teheran torni al tavolo con Washington e raggiunga un accordo migliore di quello del 2015. Allora sì, il conflitto sarebbe stato un successo. Come piace dire a Trump: “Staremo a vedere”».
«In questo clima di incertezza, il punto fermo è che per ora, Netanyahu non ha “cambiato il volto del Medio Oriente”, come aveva detto. E gli ayatollah sono ancora al loro posto – gli fa eco Pinkas –. Del resto, come si poteva pensare che avrebbe deposto un regime a 1.700 chilometri di distanza quando non è riuscito, in 21 mesi, a far cadere quello di Hamas a Gaza, ad appena due chilometri. Il giorno della tregua, nella Striscia, sono stati uccisi sette soldati. Dopo due settimane di retorica, dunque, l’attenzione dell’opinione pubblica è tornata sulle questioni importanti».
In realtà, Trump, seguito a stretto giro da Netanyahu, si è affrettato a ribadire che la “vittoria” sull’Iran avrebbe accelerato il negoziato per il cessate il fuoco anche a Gaza. «Una prospettiva distorta – sostiene Etzion –. L’unico ostacolo alla tregua è la volontà del premier israeliano. È stato quest’ultimo a stralciare brutalmente l’intesa in tre fasi, raggiunta a gennaio, che prevedeva il rilascio di tutti gli ostaggi in cambio della fine della guerra. Ipotesi a cui Netanyahu si oppone per i propri interessi di sopravvivenza politica». Ora, però, questi potrebbero cambiare. Secondo alcuni politologi e media, il leader del Likud potrebbe essere tentato di “capitalizzare” il risultato del conflitto con Teheran convocando delle elezioni anticipate in cui partirebbe da una posizione forza. «I sondaggi, però, rivelano il contrario – replica Pinkas –. Le ultime due rilevazioni, entrambe successive alla tregua con Teheran, gli danno appena un seggio in più rispetto ad ora. È molto improbabile, dunque, che sciolga il Parlamento. Oltretutto, in base alla legge, il voto sarebbe fra 90 giorni con il rischio che, nel frattempo, emergano i limiti del presunto successo iraniano». Secondo l’esperto, al premier si prospettano due alternative. La prima è quella invocata implicitamente “dall’amico Donald”: un patteggiamento con il pubblico ministero nell’ambito del processo a suo carico per frode, abuso d’ufficio e corruzione. «Potrebbe dichiararsi colpevole di qualche delitto minore con la garanzia di non andare in carcere. In cambio, offrirebbe il proprio ritiro dalla scena politica – conclude Pinkas –. Del resto ha 76 anni. Oppure potrebbe fare quello che ha sempre fatto: mantenere lo status quo e prendere tempo, sapendo di avere una coalizione instabile ma non a rischio di caduta».
A metà luglio, la Knesset terminerà la sessione per le vacanze estive: i lavori riprenderanno non prima della fine di settembre, al termine delle festività ebraiche. Nel frattempo, la “routine tragica” del massacro di Gaza andrebbe avanti. Contro la volontà dei due terzi degli israeliani.
«Nei dodici giorni di ostilità è stato facile sedurre l’opinione pubblica con l’esibizione della forza militare: scienziati uccisi, istallazioni colpite, simboli del regime distrutti. Ora, però, è il tempo delle domande. E le risposte non sono affatto nette. Il programma nucleare iraniano ha subito danni, anche pesanti. Ma non è stato “obliterato” per parafrasare il presidente Usa. Oltretutto non si sa che fine abbiano fatto i 400 chili di uranio arricchito nelle mani di Teheran. Improbabile che si trovassero a Fordow, chiaro obiettivo statunitense. E anche se fossero stati là, che ne è stato?», sottolinea Alon Pinkas, diplomatico e scrittore, consulente per la politica estera di Ehud Barak e Shimon Peres, nota firma del quotidiano Haaretz.
Etzion, ex vicedirettore del Consiglio di sicurezza nazionale, la pensa allo stesso modo. «Né il programma nucleare né quello per i missili a lungo raggio sono stati azzerati. Teheran ha la capacità tecnica e la conoscenza per ricostruirli. Lo farà e con più slancio? O il conflitto, come vuole presentarlo Netanyahu, favorirà un’intesa diplomatica? Al momento non possiamo dirlo. È ragionevole che l’Iran – e altri Paesi del Medio Oriente – consideri la bomba atomica e un massiccio riarmo come l’unica garanzia per difendersi dagli attacchi di Israele e Usa. In questo caso, la guerra sarebbe stata un fallimento. È anche possibile, anche se non ci credo molto, che Teheran torni al tavolo con Washington e raggiunga un accordo migliore di quello del 2015. Allora sì, il conflitto sarebbe stato un successo. Come piace dire a Trump: “Staremo a vedere”».
«In questo clima di incertezza, il punto fermo è che per ora, Netanyahu non ha “cambiato il volto del Medio Oriente”, come aveva detto. E gli ayatollah sono ancora al loro posto – gli fa eco Pinkas –. Del resto, come si poteva pensare che avrebbe deposto un regime a 1.700 chilometri di distanza quando non è riuscito, in 21 mesi, a far cadere quello di Hamas a Gaza, ad appena due chilometri. Il giorno della tregua, nella Striscia, sono stati uccisi sette soldati. Dopo due settimane di retorica, dunque, l’attenzione dell’opinione pubblica è tornata sulle questioni importanti».
In realtà, Trump, seguito a stretto giro da Netanyahu, si è affrettato a ribadire che la “vittoria” sull’Iran avrebbe accelerato il negoziato per il cessate il fuoco anche a Gaza. «Una prospettiva distorta – sostiene Etzion –. L’unico ostacolo alla tregua è la volontà del premier israeliano. È stato quest’ultimo a stralciare brutalmente l’intesa in tre fasi, raggiunta a gennaio, che prevedeva il rilascio di tutti gli ostaggi in cambio della fine della guerra. Ipotesi a cui Netanyahu si oppone per i propri interessi di sopravvivenza politica». Ora, però, questi potrebbero cambiare. Secondo alcuni politologi e media, il leader del Likud potrebbe essere tentato di “capitalizzare” il risultato del conflitto con Teheran convocando delle elezioni anticipate in cui partirebbe da una posizione forza. «I sondaggi, però, rivelano il contrario – replica Pinkas –. Le ultime due rilevazioni, entrambe successive alla tregua con Teheran, gli danno appena un seggio in più rispetto ad ora. È molto improbabile, dunque, che sciolga il Parlamento. Oltretutto, in base alla legge, il voto sarebbe fra 90 giorni con il rischio che, nel frattempo, emergano i limiti del presunto successo iraniano». Secondo l’esperto, al premier si prospettano due alternative. La prima è quella invocata implicitamente “dall’amico Donald”: un patteggiamento con il pubblico ministero nell’ambito del processo a suo carico per frode, abuso d’ufficio e corruzione. «Potrebbe dichiararsi colpevole di qualche delitto minore con la garanzia di non andare in carcere. In cambio, offrirebbe il proprio ritiro dalla scena politica – conclude Pinkas –. Del resto ha 76 anni. Oppure potrebbe fare quello che ha sempre fatto: mantenere lo status quo e prendere tempo, sapendo di avere una coalizione instabile ma non a rischio di caduta».
A metà luglio, la Knesset terminerà la sessione per le vacanze estive: i lavori riprenderanno non prima della fine di settembre, al termine delle festività ebraiche. Nel frattempo, la “routine tragica” del massacro di Gaza andrebbe avanti. Contro la volontà dei due terzi degli israeliani.
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