Donetsk, Lugansk, Kherson: cosa resterà dell'Ucraina alla fine della guerra?
Le trattative con Mosca potrebbero finire con un'amputazione nazionale. Putin punta a un bottino da migliaia di miliardi di dollari in terre rare e acciaio, Kiev rischi di perdere memoria e futuro

Cosa resterà dell’Ucraina dopo il probabile scorporo delle ricche province di Donetsk, Lugansk, Kherson, Zhaporizhzhia, della costiera di Melitopol e Mariupol che collega il Mare di Azov alla Crimea, consegnate manu militari a Vladimir Putin a conclusione di una guerra che poteva forse essere evitata e che comunque avrebbe potuto concludersi già nel 2002 con una pace meno disarmante e gravosa?
Cosa diventeranno un domani nell’immaginario ucraino quel cumulo di terre irredente – le loro Trento e Trieste, la loro Fiume, la loro Istria – che nessuna cosmesi diplomatica, nessuna promessa di ricostruzione, nessuna Mason-Dixon (la linea che divideva nordisti e sudisti in America) che ne rimodella i confini riusciranno mai a nascondere la lunga cicatrice di quella tragica amputazione?
Sembra ieri quando undici anni fa nel cuore della Crimea, conquistata senza sparare un solo colpo di fucile dagli “omini verdi” mandati da Putin, a Yalta, Sebastopoli, Sinferopoli si era consumata l’ultima nota dell’inno russo e si sentiva esclamare in coro: «Ro-ssi-ya!, Ro-ssi-ya».
Sembra ieri quando undici anni fa nel cuore della Crimea, conquistata senza sparare un solo colpo di fucile dagli “omini verdi” mandati da Putin, a Yalta, Sebastopoli, Sinferopoli si era consumata l’ultima nota dell’inno russo e si sentiva esclamare in coro: «Ro-ssi-ya!, Ro-ssi-ya».
Russia e Ucraina si compenetrano da secoli. I loro poeti, i loro scrittori – Gogol’, Babel’, Grossman, Bulgakov, Puškin, Èechov sono nati o hanno trascorso lunghi anni in queste terre spalmate di grano. Oggi la casa di Kiev è un guscio svuotato. E il sentimento prevalente è quello che il sociologo sudafricano Stanely Cohen ha definito “moral panic”, quel diffuso senso di dolore che avvolge il lutto collettivo e finisce per anestetizzare nell’oblio perfino i lati più bui dell’anima ucraina, come i battaglioni Azov, gli estremisti di Pravy Sektor, le svastiche stilizzate, il ricordo di Stepan Bandera, i collaborazionisti che tra il 1941 e il 1943 aiutarono le Waffen-SS a sterminare migliaia fra ebrei, comunisti, rom.
Quando tacerà finalmente il cannone si scoprirà uno dei perché di questa guerra, la cui conclusione si staglia come un gigantesco “land grabbing” (la corsa forsennata ad accaparrarsi lotti territorio sfruttabile per coltivazione e risorse minerarie un tempo appannaggio del solo soft power cinese) che appare pertinenza dei due soli Stati abilitati a arbitrare il destino dell’Ucraina.
Il bottino di guerra è stato accuratamente pianificato da Mosca. Provate a tenere a mente, se lo potete, questi nomi: scandio, ittrio e a seguire quindici lantanoidi ovvero, nell'ordine della tavola periodica, Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio e Lutezio. Materie prime “critiche” del valore stimabile in 15mila miliardi di dollari, il 40% delle quali si trova su aree attualmente occupate dalle forze russe.
Il bottino di guerra è stato accuratamente pianificato da Mosca. Provate a tenere a mente, se lo potete, questi nomi: scandio, ittrio e a seguire quindici lantanoidi ovvero, nell'ordine della tavola periodica, Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio e Lutezio. Materie prime “critiche” del valore stimabile in 15mila miliardi di dollari, il 40% delle quali si trova su aree attualmente occupate dalle forze russe.
È per queste terre rare che a Mosca e Washington si sta ridisegnando la nuova Sykes-Picot (la spartizione del Medio Oriente dopo la Prima guerra mondiale), dopo che dall’iniziale fetta del Paese controllata da Putin – la Crimea più le autoproclamate repubbliche del Donetsk, Lugansk, ovvero il 7 per cento del territorio ucraino – ora si è esteso al 21 per cento. Accaparrandosi il Donbass, ai russi resterà in mano il cuore dell’industria siderurgica e metallurgica ucraina, per non parlare dei grandi impianti come Azovstal e Ilich a Mariupol, che producevano acciaio e semilavorati per l’industria pesante e l’export e che verranno ricostituiti. Ma anche il carbone è una ghiotta fetta del bottino: l’Ucraina ne possiede la più grande riserva d’Europa, ma il 60% oggi è in mano russa. Ferro, titanio, litio dormono nel sottosuolo ucraino, in attesa che qualcuno li estragga e li trasformi in un progetto di profittevole sfruttamento. E non sarà certo il fragile governo di Volodymyr Zelensky a impedirglielo: Donald Trump ha già messo le mani avanti. Vuole 500 miliardi di terre rare. Si tratta solo di dargli il tempo di accordarsi con Putin.
Nel romanzo satirico-distopico di Vladimir Sorokin La giornata di un opriènik, pubblicato nel 2006 e ambientato nel 2027 in una Russia molto cinese e mandarina, che ha costruito una grande muraglia che va dal Baltico alla Cina attraverso il Caucaso, punteggiata dalle cupe sagome degli oleodotti per proteggerla dall’Europa, si respira quell’eclissi del diritto e della Storia che due scrittori di opposte visioni come Oswald Spengler e Fedor Dostoevskij avevano descritto e intuito molto tempo addietro: il predominio del denaro e della comunicazione di massa e soprattutto il venir meno del concetto di Europa come grande madre dell’intera cultura occidentale, greco-ellenistica, ebraica, cristiana: tutto veniva rimesso in gioco da quel portentoso acceleratore che era la violenza della guerra, il massacro di ogni certezza, la disfatta delle sicurezza ereditate dal passato. E qui, purtroppo, siamo fermi oggi.
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