C'erano una volta Macron e la Quinta Repubblica
Ecco perché la triste parabola dell'ultimo "enfant prodige" di Francia rischia di trascinare con sè un Paese centrale per l'Europa e un intero sistema politico

Aspettando Godot. Ovvero le elezioni. O magari il quarto premier consecutivo dopo la caduta verticale di Lecornu, liquidato in una manciata di ore dopo soli 27 giorni di mandato (anche se Macron gli ha concesso ulteriori 48 ore). O magari le dimissioni, le sue. Potrebbe anche farlo, il presidente francese può tutto.
Ieri pomeriggio, subito dopo le dimissioni di Lecornu, lo si è visto passeggiare sulle rive della Senna, vestito di scuro, il cellulare all’orecchio. Lo ha scovato una tv all news . «È l’ora più buia – si è detto – la sua è un’immagine di solitudine, che illustra il momento che sta attraversando il presidente».
Ci vorrebbe un oracolo. Come il vecchio De Gaulle.
Già, che cosa direbbe oggi Charles De Gaulle di questa sua Quinta Repubblica? Di quel semipresidenzialismo alla francese, per anni modello e invidia di molti (compresi noi cisalpini) e oggi sfarinatosi in una melmosa Prima Repubblica all’italiana, dove tre forze l’una contro l’altra armate non riescono a mettersi d’accordo come fanno i tedeschi quando non hanno i numeri e i voti? Già, cosa direbbe il legnoso generale, le cui spoglie riposano silenziose a Colombey-les Deux-Églises e i suoi vaticini – come non pensare in simili frangenti al capolavoro di Georges Simenon Le Président? O al suo folgorante «Guerra agli imbecilli? Vasto programma…», frase mai pronunciata ma che gli si attaglia a perfezione – restano muti?
Ma De Gaulle tace. Ed è meglio. Perché di Emmanuel Macron, del tecnocrate liberale allevato dai Rothschild e impratichitosi alla corte del traballante Hollande, dell’enfant prodige partito dal nulla e giunto trionfale all’Eliseo come sul cocchio di un auriga apollineo resta solo un desolante ricordo. Il ricordo di una grandeur posticcia, di una testardaggine consumatasi nell’inconcludente velleità di aver voce in capitolo in Medio Oriente, in Ucraina, ai tavoli che contano, dove si decidono la pace e la guerra.
Ma lui i problemi veri li ha in casa. C’è la jacquerie di «Nicolas qui paie» , letteralmente “Nicolas che paga”, una riedizione transalpina del nostro “paga Pantalone”, c’è la rivolta del ceto medio, la fiammata protestataria delle banlieue, lo spread che sale (attizzando il compiaciuto motteggio dell’Italia, giunta a un punto solo di differenza, ancora un scatto ed è il sorpasso, come certi tribolati match point di Sinner), il concitato vociare dei partiti che chiedono tutto, sfiducia, elezioni, dimissioni, coalizioni. Faide creative e ancestrali, le loro, che affondano le radici nel mai sepolto frondismo francese (come quello di ieri della destra repubblicana), che corrode dall’interno quell’immagine di maestosa stabilità che si vorrebbe ci fosse ma che in realtà non c’è mai stata davvero.
Che fare, dunque? Il ricordo della cohabitation è stampato nel cuore dei francesi. Lo chiamano anche marriage blanc, celeberrimo quello tra Mitterrand e Chirac, che si tolleravano odiandosi cordialmente, tra Mitterrand e Balladur, poi anche quello tra Chirac e Jospin.
Il problema è che nessuno vuole più coabitare con il presidente dalle basette alla ussara. Da Bardella a Mélenchon, il Rassemblement Nationale e la France Insoumise, ovvero la destra populista, nazionalista, xenofoba e sovranista e la gauche giacobina votata alla fraternité e alla guerra ai privilegi del ricchi hanno un comune bersaglio, l’inquilino dell’Eliseo, ovvero «un morto che cammina» (copyright Marine Le Pen). Al quale più di due terzi dei francesi non credono più mentre il 52% reputa che si dovrebbe dimettere.
Che fare, dunque? O meglio, cosa farà Macron? Dopo Barnier, Bayrou e Lecornu potrebbe estrarre dal cilindro un quarto nome, con il rischio però di riprodurre la stessa situazione di stallo vissuta dai due primi ministri precedenti e l’impossibilità di ottenere una maggioranza stabile. Se sciogliesse l’Assemblea come chiedono la destra e parte della sinistra finirebbe per avvantaggiare i suoi avversari. Il suo problema è che il gioco sembra aver preso la piega lose-lose, dove tutti perdono qualcosa, soprattutto lui e nessuno vuol davvero giocare.
Morale: il tanto vantato “macronismo in un solo Paese” ha portato alla disfatta di tre governi in un solo anno e alla caduta di credibilità di un presidente. Ma forse non è tutta colpa dei partiti. Nel 1958 accadde anche al pur vittorioso De Gaulle di mancare per un soffio la maggioranza assoluta. Insomma, quanto è imperfetta e insidiosa questa Quinta Repubblica! Ce ne vorrebbe una Sesta.
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