mercoledì 12 aprile 2017
Al Cairo il memoriale degli uccisi, costruito dopo le stragi dell’11 dicembre. Lì c’è la forza di resistere: «Lo dobbiamo ai nostri martiri». Delegazione vaticana dal patriarca Tawadros.
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El-Mazor. «Il memoriale». «A me piace chiamarlo lo “scrigno della memoria”. Un forziere prezioso da cui attingere la determinazione per resistere e il coraggio di non rinnegare la nostra fede. Ci sono molti modi per farlo. Il più terribile è quello di cedere all’odio. Significherebbe tradire il sangue dei martiri». Teodora, la giovane guida, pronuncia la frase in tono grave. Intonato al luogo.

Qua i martiri e il loro sangue sono una realtà tangibile. Alle sue spalle, si trovano le foto di decine e decine di vittime della ferocia terrorista. Accanto ad ognuna, una teca di vetro con i loro oggetti e indumenti. El-Mazor è la parte più recente del museo allestito nel centro culturale copto ortodosso del Cairo. L’hanno costruito meno di due mesi fa. Poco dopo, cioè, l’attacco dello scorso 11 dicembre, quando un kamikaze ha dilaniato la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, una delle cinque del complesso di San Marco, il cuore del Patriarcato. Ventotto persone sono state massacrate dall’esplosione. Tutte donne – bambine, adolescenti, adulte e anziane – tranne Nabil. «Il buon Nabil», afferma Teodora indicandone l’immagine. «Era una guardia. Aveva notato che il killer si era diretto nella parte della chiesa dove pregano le donne. Gli era sembrato strano e l’ha seguito. Lo scoppio l’ha preso in pieno. Non è morto sul colpo, però. Orribilmente mutilato, ha continuato a stringere nel pugno le chiavi della parrocchia. Quando gli si è avvicinata la figlia Marianne, ha aperto la mano e gliel’ha consegnata. Poi ha chiuso gli occhi e si è spento. Fino all’ultimo non ha voluto lasciare la chiesa incustodita».


Non era un eroe Nabil. Non nel senso epico del termine. Era una persona «comune». Come Matthew, il cui volto sorridente spicca sulla parete bianco-crema. Islamico, è morto insieme ai venti prigionieri copti massacrati in diretta dal Daesh in Libia, nel febbraio 2015. Non ha voluto lasciarli e agli aguzzini ha detto: «Uccidete anche me». O Madlen che, poco prima di morire nella strage di San Pietro e Paolo, si era disfatta di tanti dei suoi beni per darli ai poveri. «Questi oggetti mi rendono pesante. Devo stare leggera, se voglio viaggiare verso il Cielo», aveva spiegato a quanti le chiedevano il perché del gesto. O Verena, 19 anni, che parlava l’italiano alla perfezione e sognava di contribuire alla cooperazione tra Il Cario e Roma. Per questo aveva scelto Scienze Politiche e non Arte, anche se amava disegnare. O ancora Peter, suo fratello, che quell’11 dicembre era a Messa con lei. Ma nell’ala sinistra della chiesa. E, per questo, è sopravvissuto. «Mi ha riparato quella colonna. La terza», afferma mentre indica il marmo bitorzoluto dall’esplosione. «Verine era dall’altra parte. Non ce l’ha fatta. Ora tocca a me custodirne la memoria. Quella di una martire, morta senza rancore. La vendetta di un cristiano è il perdono, diceva mia sorella. Aveva ragione, anche se a volte è difficile».

Già, difficile. Perché i terroristi, nascosti dietro un’armatura falsamente religiosa, ce la mettono tutta per frammentare la società. Col sangue. Domenica, l’ultima, duplice azione, a Tanta, città sul Delta del Nilo, e ad Alessandria. Il bilancio parla di 46 morti, un’ottantina i feriti. Due stragi dal forte valore simbolico perché perpetrate la Domenica delle Palme, a poche settimane dall’arrivo di papa Francesco. Eppure – ha ribadito la Santa Sede –, il viaggio si farà. «Un segno importante per i cristiani e per l’intera nazione egiziana: un eventuale annullamento del programma avrebbe dato l’impressione che chi sparge terrore riesce a prevalere», ha detto ieri a Fides il primate della Chiesa copto cattolica, Ibrahim Isaac Sidrak che, domenica, celebrava a poche centinaia di metri dalla cattedrale copto ortodossa colpita ad Alessandria.

A presiedere la Messa in quest’ultima era il patriarca Tawadros II, scampato alla mattanza. Ieri, riferisce il Sir, una delegazione del Vaticano – composta dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, dal nunzio, Bruno Musarò, e dal segretario del Pontefice, Yoannis Lahzi Gaid – l’ha visitato per porgergli i saluti e la solidarietà di Bergoglio e Benedetto XVI in questo momento di dolore. Proprio l’abbraccio tra Francesco e Tawadros e «con la Chiesa copto ortossa, e spaventata, ma sempre di più “Chiesa dei martiri” – ha detto il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali in un’intervista all’Osservatore Romano – sarà uno dei momenti clou del viaggio».

Insieme alla tappa del Papa ad al-Azhar, massima autorità dell’islam sunnita. Un modo inequivocabile per ribadire che il Corano è ben altro rispetto alla caricatura tragica confezionata dai terroristi. Non sorprende, dunque, la rabbia del Daesh, che ha rivendicato i massacri della Domenica delle Palme. Secondo fonti giudiziarie, i killer di Tanta e Alessandria – Abu Ishaq al-Masri e Abu al-Baraa al-Masry –, originari dell’Alto Egitto, si sarebbero addestrati in Siria. I familiari al-Baraa al-Masry smentiscono. Il governo del presidente al-Sisi, nel dubbio, ha deciso di reagire con il pugno di ferro per impedire l’infiltrazione del Califfato nel Paese. Il Parlamento, ieri, ha ratificato all’unanimità lo stato di emergenza per i prossimi tre mesi: i poteri della polizia sono rafforzati, con la possibilità di fermi «a tempo indeterminato » e il divieto di manifestazioni pubbliche. La sicurezza, intorno alle chiese copte, è stata rafforzata. Solo per entrare a Saint Mark si devono superare tre metal detector. In ogni caso, le celebrazioni del Triduo pasquale sono state confermate. E tutti giurano che ci sarà ancora più gente del solito. «È stato sempre così dopo ogni attacco – aggiunge Teodora – . Lo dobbiamo ai nostri martiri. Sono loro a darci la forza di andare avanti. Sono i nostri “maestri quotidiani di Resurrezione”». © RIPRODUZIONE RISERVATA Oltre il dolore «El-Mazor» è stato costruito dopo le stragi dell’11 dicembre. Lì c’è la forza di resistere: «Lo dobbiamo ai nostri martiri, i nostri maestri quotidiani di Resurrezione»

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