Prevenzione, servizi e comunità: la salute mentale come alleanza
Dopo l'aggressione a Milano è evidente che non bastano diagnosi e terapie: servono monitoraggio, conoscenza e solidarietà per una gestione rispettosa dei diritti

Se la domanda è «potevamo evitare che una donna venisse accoltellata alle spalle mentre camminava tranquillamente in una piazza centrale di Milano da un uomo con un presumibile disturbo di personalità e con una storia di precedenti aggressioni?», la risposta – ferma restando l’imprevedibilità in tutti gli avvenimenti della vita, in particolare in quelli che riguardano il comportamento umano – non può che essere «dovevamo evitare che accadesse». La signora protagonista suo malgrado del recente episodio è stata vittima inerme di un trauma drammatico che farà sempre parte della sua vita e il cui superamento necessita di grande affetto e solidarietà: non deve sentirsi sola, e non va lasciata sola. Capire quanto accaduto richiede riflessioni attente, non retoriche, e libere da ideologie. Innanzi tutto, non bisogna lasciarsi andare a stereotipi di pensiero quali la semplice equivalenza tra disturbo mentale e violenza, o «perché abbiamo chiuso i manicomi?», o «chi soffre di un disturbo mentale non guarirà mai», o ancora «chi soffre di disturbi psichici è un pericolo per la società e non può andare in giro a piede libero». Tutte affermazioni stigmatizzanti, false, basate sulla paura e l’ignoranza, prive di rispetto per chi è affetto da una sofferenza mentale e per i loro familiari, che spesso se ne devono occupare con scarse risorse.
Il caso di Milano mette in evidenza diverse criticità di grande attualità, come quella di riuscire a garantire in modo bilanciato ed equo la sicurezza sociale da una parte, la cura e la pena per il singolo dall’altra, laddove sia autore di reato. È possibile che la persona che ha commesso l’aggressione soffra di un grave disturbo di personalità psicotico cronico. Di conseguenza, le cure di cui necessita devono essere continue e costanti e, in questi casi così complessi, monitorate a intervalli regolari, con terapie bilanciate in relazione alle alterazioni dello status psicologico, applicate nei contesti idonei. La cura dei gravi disturbi di personalità è oggi uno dei problemi psicopatologici e terapeutici più complessi, in quanto si intersecano nella stessa tematica caratteristiche personologiche individuali, caratteristiche psicopatologiche che si sviluppano nel corso della vita e il riconoscimento, nel momento in cui viene commesso un reato, della capacità di intendere e di volere, da cui a sua volta deriva il riconoscimento di una infermità di mente parziale o totale. Su tutto ciò pesa la valutazione della pericolosità sociale, che deve essere, nei casi più gravi, costantemente accertata in modo oggettivo e concreto, non solo presunta o eseguita solo al momento della condanna. Quello della pericolosità sociale è un punto spinoso che necessita di un moderno dibattito culturale, scientifico e legislativo, sempre aggiornato e interdisciplinare tra studiosi e operatori del settore. È fondamentale evitare che ogni situazione in cui accadono comportamenti antisociali venga psichiatrizzata. Anche se si soffre di un disturbo mentale, ci può essere la piena consapevolezza di ciò che si sta commettendo. La delicatezza della questione è riconoscere, nel rispetto dei diritti umani fondamentali, che questa tipologia di persone deve essere necessariamente sottoposta a percorsi di cura medici e forensi insieme, eseguiti in contesti di grande professionalità e, se necessario, a seconda della gravità del reato commesso, che queste cure vengano effettuate in carcere. In altre parole, la distinzione, non semplice, ma oggi imprescindibile, è quella di identificare, distinguere le varie situazioni e personalizzare i percorsi di cura e custodia. Tutto questo deve essere affiancato da una reale conoscenza dello stato di salute della persona, periodicamente aggiornato, cosa che oggi non accade, ad esempio, per i soggetti in libertà vigilata, che spesso scompaiono dal monitoraggio. È necessario, anche, mettere ordine tra i livelli normativi diversi, i provvedimenti amministrativi diversificati, i sistemi sanitari differenti che entrano, a diverso titolo, delle situazioni di cui stiamo parlando.
Il Tavolo tecnico sulla Salute mentale del Ministero della Salute ha elaborato, a distanza di 13 anni da quello precedente, un Piano di Azioni Nazionale per la Salute Mentale (Pansm) 2025-2030. Il Piano, ispirato dal paradigma della One Mental Health, dove si sottolinea l’importanza dei determinanti sociali nella patogenesi dei disturbi e del disagio mentale, affronta diverse questioni riguardanti la salute mentale: dalla organizzazione dei servizi, al risk management, dalla salute mentale in infanzia e adolescenza, alla integrazione sociosanitaria, alla rilevanza che può assumere il contributo del Terzo Settore. Uno dei capitoli è dedicato alla «salute mentale delle persone detenute/imputabili e per le persone affette da disturbi mentale autrici di reato in misura di sicurezza», in cui sono previste diverse proposte per superare le criticità di cui stiamo parlando. Tali proposte si ispirano alle più attuali linee guida ed esperienze di organizzazione e cura per autori di reato con disturbi di salute mentale. Il Pansm è attualmente alla valutazione della Conferenza Stato-Regioni e, per la prima volta, ha ottenuto un finanziamento specifico nella prossima Manovra di Bilancio. Ricordiamo che tutte le ricerche epidemiologiche segnalano l’allarme della grande diffusione sia dei disturbi psichici che del disagio mentale, tanto che si parla sempre più frequentemente di «epidemia della salute mentale». Va sviluppata una nuova cultura della salute mentale in cui il prendersi cura deve appartenere responsabilmente a tutti noi e che non ci si può affidare alla falsa speranza di delegare tale responsabilità ad altri.
Coordinatore Tavolo tecnico sulla Salute mentale Ministero della Salute, Presidente del Consiglio Superiore di Sanità
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