Oltre l'indignazione, per organizzare la speranza e avviare il cambiamento

Da Gaza all'Ucraina l'importanza di strutturare il dissenso, radicare la solidarietà in legami durevoli, invitando a superare la logica della reazione per entrare in quella della trasformazione
July 23, 2025
Oltre l'indignazione, per organizzare la speranza e avviare il cambiamento
ANSA | Bombardamenti russi a Kiev, in Ucraina
In un recente intervento (La Repubblica, 20 luglio) Umberto Galimberti ha riportato l’attenzione su un nodo cruciale della nostra esperienza collettiva: l’indifferenza. Riflettendo sulle guerre in Ucraina e a Gaza, il filosofo sostiene che l’escalation delle atrocità paralizza la nostra capacità di percepire e immaginare il reale, esonerandoci dalla responsabilità. In questa anestesia percettiva, l’indifferenza diventa l’arma più letale nelle mani di chi conduce la guerra.
Il tema dell’indifferenza non è nuovo, né privo di dignità teorica. È, per così dire, un classico della riflessione morale, da Lucrezio in poi. Nel De rerum natura, il topos del naufragio con spettatore rivela la sicurezza di chi, dalla riva, contempla impassibile il disastro altrui. L’indifferenza è qui metafora di distacco, ma anche di privilegio. Nei secoli, quella scena ha conosciuto innumerevoli rivisitazioni. E tuttavia, nel contesto attuale, rievocarla può risultare fuorviante. Ciò che viviamo, infatti, non è la freddezza del non sentire, ma l’angoscia del sentire senza poter intervenire.
In altri termini, l’indignazione non è scomparsa, né si è ritirata. Al contrario: è presente, viscerale, pervasiva. La domanda che tormenta il nostro tempo non è “perché non ci importa?” ma piuttosto: “come tradurre l’urgenza che proviamo?” Come trasformare una sollecitazione morale diffusa in prassi condivisa ed efficace? Non viviamo l’anestesia dell’indifferenza teorizzata da Günther Anders, ma piuttosto ciò che Knud Løgstrup definiva «unformed ethical demand»: una pressione etica originaria, autentica ma informe, che fatica a diventare linguaggio comune e azione trasformativa.
La crisi della disintermediazione degli ultimi decenni ha esacerbato questa transizione interrotta. Il desiderio di avere voce diretta, di aggirare le vecchie strutture intermedie – partiti, sindacati, associazioni – ha prodotto infatti un indebolimento strutturale della rappresentanza. Quelle istituzioni, per quanto imperfette, fungevano da catalizzatore e amplificatore delle energie civili. La loro erosione ha lasciato un vuoto di senso e di efficacia.
La disintermediazione ha così favorito l’emergere di forme spontanee di autorappresentazione, spesso genuine ma raramente capaci di articolare una visione organica. Il risultato è una proliferazione di voci che si esprimono con veemenza ma senza continuità, senza responsabilità, senza l’attrezzatura culturale necessaria per orientare il dissenso verso un progetto condiviso. L’autenticità ha soppiantato la competenza, ma ha finito per generare una paralisi della trasformazione.
Oggi, chi si impegna sinceramente nella vita pubblica si scontra spesso con interlocutori che non ascoltano, non dialogano, non traducono. Non è, dunque, l’apatia dei cittadini a costituire il problema, ma la debolezza delle strutture che dovrebbero accogliere e valorizzare le loro istanze. L’impotenza non nasce dal disinteresse popolare, ma dal deficit interpretativo di un sistema che ha smarrito, in larga misura, la propria capacità generativa.
Senz’ombra di dubbio, l’indifferenza, nell’accezione di Anders, fu una lente efficace per cogliere l’ottundimento morale del secolo scorso, segnato dall’assuefazione all’orrore e dalla sproporzione tra potenza tecnica e responsabilità etica. Ma riproporla oggi, rischia di risultare profondamente anacronistico.
In netta controtendenza, si colloca il discorso pronunciato da papa Francesco il 16 ottobre 2021, in occasione dell’incontro con i Movimenti Popolari. In quell’occasione, il Papa non invocò emozioni collettive da risvegliare, né condannò un’umanità ritenuta insensibile. Propose, invece, un percorso di costruzione: organizzare la speranza, strutturare il dissenso, radicare la solidarietà in legami durevoli, invitando a superare la logica della reazione per entrare in quella della trasformazione.
Quel messaggio resta attuale: l’indignazione è risorsa solo se trova terreno fertile in cui radicarsi, tempo per maturare, strumenti per incarnarsi. Senza questo lavoro, le emozioni civili restano afone o si dissolvono nell’effimero. Non serve sentire di più, serve agire meglio. L’indignazione, se non si fa gesto condiviso, è solo rumore di fondo. Ma se incontra una strada praticabile, può ancora generare quel cambiamento autentico nella storia di cui tutti, in questi giorni difficili, avvertiamo l’urgenza.

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