Noi pellegrini nella Champagne dove le vigne parlano dell’Europa
Facciamo tappa nella regione francese nota per la produzione del vino spumante francese, terra di commerci e di fede

«Camminate con i piedi per terra e il cuore in cielo», raccomandava san Giovanni Bosco. E scarpinando per la Via Francigena dopo aver lasciato Reims, in mezzo alle vigne dello champagne d’un verde quasi inebriante, l’esortazione non stona affatto con il paesaggio tanto ondulato e fulgido. Anche perché i vignaioli locali si sono messi al seguito del geniale monaco benedettino seicentesco Dom Pérignon, il cui metodo di spumantizzazione offre messaggi ancor più profondi del piacere regalato dalle celebri bollicine perlate. Fra le più toccanti vetrate della Cattedrale di Reims, figura il trittico laterale sull’arte della vigna. Dom Pérignon vi appare evangelicamente come un umile operaio. Ma ogni anno, a maggio, le aspirazioni più alte dei vignaioli si esplicitano all’aperto, fra i filari, durante la Processione delle rogazioni presieduta da monsignor Éric de Moulins-Beaufort, arcivescovo di Reims, che ha rilanciato le benedizioni delle vigne. Un rito simile ad altri che parlano, in tutta Europa, di un afflato comune fra chi attende i frutti della terra. Avanziamo senza poter dimenticare verso dove puntiamo, tanto i papaveri e le margherite s’innestano nel verde, offrendo continui lampi cromatici d’italianità. E il susseguirsi di dolci ondulazioni crea pure un effetto marino. Tanto che a Verzenay non ci sorprende di veder comparire un vero faro all’orizzonte. In origine, si trattò di una trovata pubblicitaria. Ma ormai, il faro, oltre che un centro pedagogico sullo champagne, è un punto di riferimento caro a tutti, locali e viandanti. Forse perché rilancia, attraverso l’immaginario del mare aperto, un vecchio interrogativo: come ha fatto lo champagne a conquistare ogni latitudine?
Al villaggio vicino sulla Francigena, Sillery, incontriamo padre Arnaud Dhuic. È lui a presentarci una coppia di parrocchiani, Didier e Dominique, produttori di champagne. I quali, con la loro affabilità e apertura, contraddicono in pieno certi triti stereotipi sul presunto orgoglio sciovinistico degli esportatori francesi: «Siamo stati in Piemonte l’anno scorso, da produttori amici che fanno un lavoro eccezionale, in una regione agricola splendida. E come sempre, quando andiamo in Italia, dal Nord fino alla Sicilia, siamo tornati con un carico di casse di vino», ci dice amichevolmente Didier, prima di stappare a cena un barolo in onore del legame profondo fra vignaioli d’ogni contrada. Attorno alla tavola, ben tre generazioni riunite della famiglia.
Altro che screzi e scaramucce fra versanti delle Alpi, vien da pensare. Altro che guerra commerciale fra contadini ‘nemici’. Lungo la Francigena, fra gente che sgobba da sempre senza contare le ore per produrre il meglio, gli elogi volano spontaneamente verso i colleghi cugini del Bel Paese, come bollicine perlate. Raphael, genero di Didier, conferma: «Siamo da sempre clienti dei nostri amici produttori italiani e abbiamo in Italia tanti clienti fedeli. Fra vignaioli, ci capiamo al volo. Lo sappiamo bene, questo legame non si spezzerà». Un rispetto che ricorda un po’ quello, in altre sfere, espresso anche di recente a Parigi dagli imprenditori del Medef verso la nostra Confindustria. Al di là degli strali scambiati dai politici, c’è per fortuna quest’Europa della stima senza frontiere fra chi suda per far lievitare il pane comune dell’economia continentale.
Tenacemente, le radici delle vigne dello champagne affondano di una decina di metri nel calcare e nell’argilla. E pare una metafora dell’ostinata dedizione dei vignaioli alle proprie terre. Al contempo, dunque, radicamento locale e apertura al mondo. Sì, è proprio possibile. Gli occhi di padre Arnaud brillano mentre parla dei pellegrini sulla Francigena: «Sono vieppiù numerosi e ogni settimana restaurano la prima vocazione delle nostre terre». Già, un fiume placido di viandanti che chiedono accoglienza, offrendo ogni volta l’immagine di ciò che potrebbe essere l’Europa. A Châlons-en-Champagne, dove giungiamo costeggiando il canale della Marna, incrociamo Ana Maria, pellegrina rumena quarantenne partita dall’Inghilterra e decisa a giungere a Roma: «Sono cristiana e a guidarmi è il sentimento religioso di dover percorrere questa strada, come già avevo fatto sul Camino di Santiago. Fin dall’alba, avanzo quanto più possibile e spero di farcela in 80 giorni». Ma nella Champagne, i pellegrini come Ana Maria emulano pure coloro che resero prospere queste terre, colorandole di cosmopolitismo fin dal Medioevo. Lo comprendiamo meglio a Bar-sur-Aube, in un gioiello architettonico della fede come la locale Chiesa di San Pietro. Un edificio che fu tanto caro ai commercianti giunti nella cittadina da ogni dove, attirati dalle celebri fiere organizzate dai signori locali.
Nella chiesa, la prima sorpresa è a pochi passi dalla soglia d’ingresso: al suolo, una vasta lapide commemora una coppia di nobili scozzesi i cui profili sono tracciati con una delicatezza commovente. Avanzando, in mezzo a statue pregevoli di profonda espressività, come quella di sant’Anna che insegna a leggere a Maria bambina, si comprende presto che l’edificio è pure un inno al lavoro e al commercio: decine di altre lapidi sono dedicate a carpentieri, macellai, vignaioli, drappieri, artigiani d’ogni corporazione. E pure il porticato ligneo esterno cinquecentesco pare un omaggio alle arti manuali. Ad aiutarci a capire è Mario, un insegnante in pensione d’origine italiana, fiero d’appartenere al ramo francese della stessa famiglia del filosofo Norberto Bobbio. «Vede, lì, nel Medioevo, sostavano i mercanti fiamminghi. Nell’isolato più in là, i lombardi. E ancora più in là, gli ebrei, che esercitavano come cambiavalute. La prima settimana, si scambiavano stoffe, poi il cuoio, profumi e altri prodotti di lusso. Per quasi un mese, ogni anno, Bar era il cuore pulsante dell’economia europea», racconta con fervore, come se il tintinnio delle monete e i riflessi dei broccati riempissero ancora le stradine, sulle rive romantiche dell’Aube, un tempo piene di mulini.
Grazie pure alle fiere allestite annualmente in diverse città, la Champagne divenne prospera, trasformandosi pure nel cuore dell’arte eccelsa delle vetrate policrome. A Troyes, altra antica sede ‘fieristica’ e oggi capoluogo del dipartimento dell’Aube, lo ricorda uno splendido museo in pieno centro, la Cité du Vitrail. In questa scia, per secoli, la regione è rimasta pure un eccezionale crocevia d’artigiani e del lavoro manuale. E ispirato anche da questi trascorsi, il padre gesuita Paul Feller (1913-1979) consegnò proprio a Troyes la propria collezione di attrezzi e libri tecnici raccolti con passione per decenni. Il risultato, oggi, è un museo dei più sorprendenti, la Maison de l’Outil et de la Pensée ouvrière (Casa dell’Attrezzo e del Pensiero operaio): ben 12mila pezzi esposti in 65 vetrine scenografiche. Un vero inno polifonico al lavoro e, in fondo, alla vocazione più profonda della stessa Champagne dei vignaioli.
Fra favolose fiere dell’Ovest e vetrate sacre sfavillanti, la Champagne era già una terra da sogno ben prima del decollo dello champagne. E il successo del ‘nettare’ non può essere disgiunto dalla forza di quest’eredità simbolica locale, sospesa fra terra e cielo. Soprattutto, se si considerano gli investimenti internazionali nella regione, piovuti ad esempio dalla Germania. Da secoli, dunque, con i piedi per terra e almeno un po’ il cuore in cielo. Così, a Châlons, accogliamo con gioia l’invito a salire fino alle parti alte dell’antica Collegiata di Notre-Dame-en-Vaux, eretta su una precedente chiesa già citata nell’850. Perché la portentosa «foresta» lignea di travi a sostegno del tetto, simile a quella ricostruita a Notre-Dame di Parigi, è un luogo sospeso dove il lavoro umano pare affidarsi e quasi "appendersi" al cielo. Tanto da farci pensare alla fine che i migliori punti panoramici sulla ridente Champagne siano proprio i rosoni sommitali degli edifici sacri, raggiungibili solo dopo una salita tanto faticosa, quanto interiormente appagante.
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