Meglio favorire il credito ai fragili che tassare gli extraprofitti
Le banche siano spinte a prestare denaro a chi è escluso. In questo modo usciremo da una visione ideologica, aiutando i cittadini e spingendo gli istituti a compiere il loro dovere principale

La querelle governo-banche di queste settimane mi sembra viziata in origine, fin dalla parola extraprofitti, evidentemente opinabile, perfetta per alimentare polemiche. Non a caso i due opposti schieramenti – banche da una parte, governo dall’altra – non sanno andare oltre lo scontro frontale: difendersi, assaltare. Perché di questo si tratta, e la conquista degli extraprofitti appare ogni giorno di più una pura ritorsione, una domanda retorica: «Chi meglio dell’odioso sistema bancario può subire un sostanzioso prelievo da trasformare in vantaggi per la collettività?». Quanto sostanzioso il prelievo e quali gli obiettivi di pubblica utilità sono domande legittime ma inevase. Se veramente l’obiettivo è più serio di quello che appare, dunque non solo fare un dispetto alle banche in nome del popolo ma favorire i cittadini nel lungo periodo, un’alternativa diversa, di livello e di prospettiva decisamente superiori, sarebbe invece chiedere alle banche di trasformare una parte di questi extraprofitti in strumenti di accesso al credito stabili e di dimensioni industriali. Tra il 2007, anno della nascita di Banca Prossima e il 2022, quando è diventata Direzione Impact di Intesa Sanpaolo, ho lavorato con categorie di persone o di imprese che, non avendo garanzie, non possono ricevere credito. Sono i cosiddetti “non bancabili”. Lo scontro di civiltà è tutto nel momento in cui un cittadino o un imprenditore che vuole credito si sente chiedere garanzie reali delle quali non dispone. Il prestito che vorrebbe – dice lui – serve appunto a fare oggi cose che domani creeranno l’agognata “bancabilità”; prima il prestito e poi le garanzie. Ma per la banca l’ordine è inverso.
Sembra una situazione non sanabile, e lo resta finché non si inventa qualcosa di strutturalmente diverso. Il più innovativo articolo dello statuto di Banca Prossima recita che almeno la metà del profitto realizzato ogni anno va trasformato in un «fondo patrimoniale che ha il compito di fronteggiare la maggiore rischiosità di prestiti concessi a soggetti non dotati dei requisiti creditizi ordinari». È questo lo strumento, semplice ma decisivo, che per quindici anni ci ha consentito di finanziare soggetti dell’economia nonprofit considerati troppo fragili secondo i modelli normali di valutazione bancaria. Erano piccole cooperative, associazioni di provincia, meritorie organizzazioni culturali, opere sociali della chiesa precarie ma altrettanto vitali per le comunità. Poi, dato il grande successo di quell’esperienza, siamo passati a finanziare studenti universitari, lavoratori in attesa di ricevere la pensione, famiglie con figli nell’età della formazione e ancora altre categorie di esclusi.
Credo sia chiaro così, ma faccio un esempio: prima di questo meccanismo di inclusione creditizia, allo studente universitario che chiedeva un prestito per pagare casa, cambiare il computer o smettere di fare lavoretti in nero, la banca avrebbe risposto di no, perché quella ragazza o quel ragazzo non possedevano al momento della richiesta fonti di reddito o consistenze patrimoniali tali da giustificare la concessione. Per quegli studenti l’alternativa sarebbe stata trovare un garante disposto a impegnarsi formalmente nei confronti della banca: una soluzione praticabile soltanto in pochi casi e fatta apposta per sfavorire i meno fortunati. Se ci si pensa era una dinamica tecnicamente corretta, perché deriva dalla cautela che una banca deve mantenere nell’impiego delle sue risorse, ma socialmente molto poco apprezzabile. Da quando abbiamo potuto disporre di quel nostro fondo di garanzia, però, le cose sono cambiate del tutto. È per questo che oggi qualunque studente universitario di qualunque facoltà e di qualunque ateneo può chiedere e ricevere senza garanzie personali un prestito di buon importo e buon tasso da utilizzare per studiare prima e meglio. Senza trionfalismo, penso di poter dire che si è fatto un passo importante per aiutare questo Paese tragicamente arretrato nella percentuale di laureati, a crescere e a competere internazionalmente. Per me che ho vissuto l’intera vicenda, dal momento in cui abbiamo individuato il problema fino alla soluzione, si è trattato di un confronto tra una visione capitalistica espansiva e inclusiva e quella tradizionale secondo cui il profitto va massimizzato e consegnato per intero all’azionista.
Riconosco a Intesa Sanpaolo il merito di avere inaugurato una strada completamente nuova, basata non soltanto su una buona intenzione ma su uno strumento tecnico di lunghissimo periodo, tuttora funzionante e in continua crescita. Quanto a quei prestiti, considerati troppo rischiosi per essere fatti in condizioni normali, si sono dimostrati superiori a qualunque aspettativa, con pochissimi casi di mancata restituzione. Ci hanno rivelato con la forza dei fatti che categorie in esclusione possono a pieno diritto risultare incluse, non solo perché il fatto è moralmente giusto ma perché è anche tecnicamente percorribile. Ecco dunque l’idea: se il governo vuole uscire da una visione ritorsiva e punitiva dell’intero sistema del credito, ovvero se vuol fare qualche cosa di stabile e utile per i cittadini e per la crescita del paese, inviti con forza le banche ad attuare politiche di questo genere, in cui una parte dei profitti – normali o extra che siano – viene utilizzata in direzione dell’inclusione creditizia di categorie che fra l’altro, come gli studenti o le famiglie con figli piccoli, rappresentano una leva fondamentale per lo sviluppo del Paese. Ieri il ministro Giorgetti ha detto che le banche italiane sono solide e possono reggere la prova di questo prelievo. È giusto, ma anche sbagliato. Le banche italiane, proprio perché sono solide, possono tradurre la loro forza in politiche creditizie più aperte, responsabilmente inclusive. In questo modo usciremo da una visione ideologica, aiuteremo i cittadini e richiameremo le banche al loro principale dovere che è quello di far circolare la ricchezza e magari anche di trasformarla in progresso.
Marco Morganti è presidente di Assobenefit, è stato amministratore delegato di Banca Prossima
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