La manovra: passi avanti, strada stretta
Una legge “magra” rispetto al passato, basata su un mix di responsabilità e di tentativi di dare un segnale

Una legge “magra” rispetto al passato, basata su un mix di responsabilità e di tentativi di dare un segnale. Resta difficile fare rivoluzioni da Palazzo Chigi: il governo Meloni mette in pista la sua terza manovra effettiva (quella del 2022 lo fu solo a metà) che, nel solco di questi ultimi anni - e una volta sfumata l’illusione di far schizzare la crescita coi soldi del Pnrr o con bonus vari -, punta innanzitutto a tenere in sicurezza i conti pubblici e che perciò si potrebbe definire “simil-draghiana”, usando un epiteto che una volta sarebbe stato ritenuto provocatorio dagli attuali governanti. La parte più cospicua è quel terzo circa dell’intera legge di Bilancio, fra riduzione dell’Irpef e agevolazione sui rinnovi contrattuali, impiegato per rinforzare i salari, mossa quanto mai necessaria in un Paese costantemente agli ultimi posti nelle classifiche Ocse degli aumenti in “busta-paga” degli ultimi 20/30 anni e che vede ancora livelli inferiori al 2021, per colpa dell’inflazione. C’è poi il segnale al mondo del credito, che viene però al termine di un balletto di oltre due anni su questo fronte: una norma anche giustificata alla luce degli utili da primato macinati dalle banche, ma sarà stavolta definitiva e, soprattutto, darà gli esiti sperati senza un accordo concordato con i diretti interessati? Un intervento che colpisce, poi, è quello (minimo) sulle pensioni che ancora una volta rinnega del tutto, alla faccia della coerenza politica - soprattutto della Lega -, lunghi anni di retorica contro quella “riforma Fornero” che, seppur dolorosa (ricordiamo gli esodati), nel 2011 pose mattoni consistenti per salvare l’Italia dal tracollo finanziario, come oggi riconosce suo malgrado lo stesso centrodestra.
In mezzo, una costellazione di misure tese a puntellare un quadro contabile che si prefigge di ridurre il deficit di circa 6 miliardi per ciascuno dei prossimi tre anni e che poggia sulla stima di un aumento più che consistente delle entrate finali e, quindi, della pressione fiscale: ben 80 miliardi di euro in più da qui al 2028. Un’altra incongruenza per una coalizione che, quando era all’opposizione, ipotizzava scenari quasi da paradiso fiscale. Da quei sogni si è passati ora alle solide realtà di Palazzo Chigi. «Non creare nuovo debito è un principio morale», dice il ministro dell’Economia Giorgetti, e non si può che essere d’accordo in un Paese ad alto debito, bassa crescita e spesa pubblica elevata. In questo quadro certamente positivi sono i segnali dati alle famiglie, nel solco degli anni passati, e alle imprese, ora pure gravate dai dazi, col ritorno degli incentivi sugli ammortamenti. È senz’altro da apprezzare anche il nuovo taglio dell’Irpef, ma alla fine vale poco più di un caffè al giorno e non sarà una svolta per il ceto medio. Valida è pure la detassazione dei contratti, anche se forse sarebbe stato meglio concentrare gli sforzi su quelli aziendali, di secondo livello, per dare una maggior spinta ai recuperi di produttività. Molto si discute poi sulla rottamazione delle cartelle esattoriali, dove la politica deve sciogliere un equivoco di fondo: già oggi ci sarebbero gli strumenti per rendere effettiva la riscossione di buona parte dei tributi non versati, ma non lo si fa per una scelta di convenienza (non alienarsi simpatie elettorali). In mancanza di questa volontà, a destra come a sinistra, forse meglio la rottamazione che alimentare quell’enorme magazzino da 1,2 miliardi di crediti non riscossi.
Questa legge “leggera” innanzitutto ci obbliga però a capire cosa ha significato la riforma del Patto di stabilità europeo, i cui effetti non sono stati ben valutati all’atto del varo: con essa i governi nazionali si sono impegnati per 7 anni a mantenere una precisa, rigida traiettoria dei conti pubblici. Le maxi-manovre dovremo scordarcele. Il problema di fondo in cui si dibatte l’Italia – e l’Europa intera – rimane quello di una crescita impalpabile, in cui si “festeggiano” – da parte degli esecutivi in carica – incrementi di uno o due decimi di punto come fossero delle svolte. Un quadro aggravato da tendenze demografiche che solo adesso, finalmente ma in forte ritardo, sono state in parte comprese dalla politica e che avranno effetti depressivi nei decenni a venire. Siamo ben lontani da quegli anni del “boom” economico che dispensavano fiducia e prospettive. In questi nuovi tempi, solo misure-choc (come un taglio davvero forte delle tasse) potrebbero avere conseguenze reali nella vita nazionale. Oggi questa scossa manca. Quella che ora si vorrebbe utilizzare per le maxi-spese destinate al riarmo andrebbe riconvertita nel campo civile e sociale: alimentare le paure dei cittadini è più facile che affrontare i loro problemi quotidiani, però è qui che l’Europa, culla del welfare, deve riscoprire le sue radici. Accanto agli spazi di bilancio concessi dall’Ue, l’Italia deve confrontarsi tuttavia col suo problema irrisolto: una spesa pubblica ingentissima, che pur lascia sacche d’inefficienza e di bassi servizi. Solo riuscendo a qualificare questa spesa si potranno trovare in futuro spazi di bilancio per misure-choc, appunto. Viceversa, restano tante misure “coriandolo” (come alcune, anche valide, di questa manovra). Che non fanno però un Carnevale.
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