Il nostro dovere di dire la vita, fino in fondo
Non c'è solo un racconto possibile quando si parla di fine dell'esistenza e non è giusto che una narrazione prevalga sull'altra. Il bisogno di cura e sollievo merita di essere raccontato sempre

«Vi chiedo di essere umani». Con queste parole, affidate a un video diffuso dopo la sua morte, avvenuta con il suicidio assistito, Laura Santi ha chiesto alla politica di non ostacolare una legge di “buon senso” sul fine vita, cioè di far convergere le posizioni verso una norma capace di offrire una risposta dignitosa alle “sofferenze dei malati più gravi”. Essere umani: può sembrare facile ai vivi, o addirittura scontato, in faccia a vicende tanto dolorose, dense di vita e di senso, spinti, costretti a interrogarsi riemergendo dal brodo della routine di esistenze personali fin qui fortunate.
Purtroppo non lo è. Lo si nota nelle parole in eccesso che all’esterno, sforzandosi di attribuire un significato proprio all’“essere umani”, ha invece trascurato non la vicenda personale, e la legittima richiesta di dignità, ma il racconto che della vita, della morte, e del dolore, ne deriva, volendo orientare il (buon) senso comune. Lo hanno rilevato, ma non era necessario aspettarne le lettere, tanti malati al medesimo confine estremo della vita, che faticano a trovare consolazione nella morte, e chiedono di non essere lasciati soli se invece provano a continuare. Perché dietro, o sotto, la battaglia per una buona legge sul Fine vita, c’è la vita vera e il dolore autentico, che può portare a chiedere di farla finita, a un certo momento, ma anche di essere alleviato ancora, se è possibile. Non c’è un solo racconto, insomma, ne sopravvivono tanti. Quando si scrive e si titola, la sintesi è sempre un difetto, come imperfetto è il numero delle pagine o delle battute di un articolo.
Ed è giusto che una narrazione non prevalga sull’altra, e non la sovrasti, s’intende al livello di chi ascolta e deve riportare, non certo a quello di chi è testimone diretto della sofferenza più atroce, e la incarna, o ne è prossimo. Quale risposta diamo, dunque, a chi vuol restare? Perché se fuori, attorno, se nel pensiero comune il radicamento è dell’idea che la pace, il sollievo, è solo nella fine – e sì, lo può essere, eppure non sempre – raccontare col passo dell’algoritmo la consolazione desiderabile di questo approdo, non è anche servire la tentazione collettiva dell’abbandono?
Uno Stato laico ha i suoi compiti, chi narra pure. Tra una legge e un’altra vi possono essere chilometri di inimmaginabili sofferenze, atroci e aggiuntive, come di solitudini angoscianti e disperazioni supplementari. I numeri dei Paesi apripista, le frontiere avanzate del fine-vita, segnalano che il confine ha continuato a spostarsi, il dolore a ramificarsi, il peso della vita ad aggravarsi. In Olanda il 5,5 per cento dei decessi sono eutanasie, anche di coppia, anche per demenza o casi psichiatrici, in Belgio il 3,5, in Canada si supera il 7. Può bastare la sofferenza psichica, o l’essere disabili, o poveri e senza alternative mediche.
Succede perché il pensiero evolve rapidamente quando muta il perimetro delle norme, e “Joe Black” può essere terribilmente affascinante, o perché la solitudine, scontata evoluzione demografica, è in gran parte anche questione di narrazione e aspettative. Dovremmo veramente “essere umani”, è vero, ancora più umani, nell’ascoltare le voci di dolore, nel capirle, nel farci toccare il cuore dalle parole di ogni persona che chiede aiuto, come di chi cerca più cura, nell’amare, e nel raccontare tutto, ma proprio tutto, fino in fondo, con grande rispetto e a voce bassa.
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