Grazie don Franco, ecco il Bene che hai fatto accanto ai nostri figli disabili
Il ricordo di don Monterubbianesi: ti prendevi un pezzo del nostro carico. Tornavamo a casa con il sorriso. Hai saputo dare forma alla speranza

Scrivo da quest’altra parte del “fronte”. Non per raccontare il tuo “68”, le tue battaglie, le tue conquiste, le cadute e le riprese. La tua visione: eri oltre, don Franco Monterubbianesi. Per noi eri Don. Oltre le barriere dei ben pensanti, dissacrante e dirompente. Scrivo di qua, per dare voce ai tuoi ragazzi, e insieme alle loro mamme, ai loro papà e ai fratelli dei disabili (ruolo tutt’altro che semplice, se non altro perché i tuoi disabili sono tanto ingombranti).
Scrivo dalla parte di un bambino di 13 anni destinato a restare bambino intrappolato in un goffo corpo di uomo. Di un bambino che cominciava a dare problemi importanti e di una mamma che credeva di non potercela fare. Credeva che non ne valesse la pena. Già ti conoscevo. Da cronista avevo raccontato di te, delle tue imprese per i disabili. Di case famiglia, agricoltura sociale. Sempre un passo avanti.
Poi il suggerimento di un collega: vai a parlarci. E ti ho parlato da questa parte del fronte. Quella che nessuno vorrebbe occupare. Tu eri lì, senza muri né confini. Disarmante e disarmato in una generosità totale. Non vedevi differenze ma ostacoli da abbattere. Gli ostacoli che mettiamo nei cuori per difenderci dalle paure. Tutte noi famiglie con disabili viviamo nella paura, se non nel terrore. Del prima, del dopo, del durante. Un’enorme incertezza ci divora, una bolla di solitudine ci inghiotte. Un magma di impotenza ci impasta. Tu oltre. Lì a sfondare le pareti dei nostri fortini in cui cercavamo di costruirci una difesa dal mondo di fuori, troppo diverso e distante e indifferente alle nostre voragini piene di dolore. Come se tutto fosse facile. E lo era. Tu confidavi. Ti fidavi del Dio incarnato. Diremmo in termini abusati: ti sporcavi le mani. Ma non sarebbe corretto, perché nella disabilità non trovavi nulla di sporco. Le mani le affondavi nella pasta. Vivevi con i nostri ragazzi, per i nostri ragazzi.
La tua missione, ispirata dalla tua vocazione. E tutto con te è stato normale. Come fosse una cosa semplice, sicuramente naturale, perché la natura li vuole così. Diversi, speciali, poco o per nulla abili, divertenti, irritanti, sfibranti... Più e meno. Troppo o niente. Tu ci sei stato. Michele era piccolo, troppo per i servizi sociali che non potevano farsene carico. Per te non c’erano regole. Con te era una mascotte in un gruppo disomogeneo per età e problemi.
Non hai mai fatto differenze. E ci hai insegnato a non farle, senza mai metterti in cattedra. Bastava guardarti come ti rapportavi con loro. Con il tuo caratteraccio, sfoderavi una virtù dietro l’altra, a partire dalla pazienza. Quella che non avevi con le regole. La riservavi per loro. Ci rendevi una famiglia unica e ci regalavi leggerezza.
Ti prendevi un pezzo del nostro carico. Tornavamo a casa con il sorriso. Con occhiali nuovi: vedevamo un’altra realtà. Una realtà di amore. Le tue parole (tante) e i tuoi discorsi (lunghi, lunghissimi) sono rimasti scolpiti nel cuore dei ragazzi, che sanno cogliere l’essenziale. Quel senso di ingiustizia e rancore verso una vita avara e cattiva, lontana dalle cose belle e scontate della gente “normale”, quell’amarezza che segna i confini della nostra prigione, con te vicino non aveva senso di essere.
Dalla mia torre sono uscita grazie a te, caro Don. E ho imparato a guardare in alto. In questi anni più si alzava l’asticella, più sono stata costretta a seguirla con lo sguardo e più ho capito che dall’Alto arrivano le risposte. Hai dato forma alla speranza.
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