Esperienza, scienza e collaborazione. Così nasce la fiducia di poter guarire

La diagnosi inaspettata che stravolge la vita, l’accettazione e la fiducia nel futuro lette da chi ogni giorno si imbatte nel dolore
August 10, 2025
Esperienza, scienza e collaborazione. Così nasce la fiducia di poter guarire
Woman female doctor examining little cute girl with toy bear
Nelle domeniche dell’Anno Santo "Avvenire" ospita voci credenti e laiche per offrire spunti di riflessione a partire da domande ispirate dalla Bolla di indizione del Giubileo. Qual è, oggi, la speranza che "non delude"? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali fondamenta edifichiamo i progetti della vita, le attese, i sogni? E la società, a che speranza collettiva attinge?
 
Come medico e ricercatrice che lavora in un grande ospedale pediatrico italiano, la speranza è per me un sentimento imprescindibile. Ogni giorno, mi trovo a formulare ipotesi diagnostiche, a prendere decisioni terapeutiche. Non essendo ormai più giovanissima, l’esperienza di quasi venti anni dovrebbe portarmi a procedere in maniera quasi automatica, e certamente mi aiuta enormemente nella gestione clinica dei miei piccoli pazienti. Eppure, ogni paziente, ogni famiglia, ogni storia è profondamente diversa, e richiede un aggiustamento continuo del tiro nel modulare le scelte, nell’affinare le soluzioni, nel gestire gli imprevisti. In questo, mi governa la speranza di migliorare sempre, anche quando non sono in grado di guarire, la condizione di malattia contro cui mi adopero, e di farlo sempre un po’ meglio, facendo tesoro di quello che ogni giorno imparo, dall’esperienza, dalla letteratura scientifica, dai colleghi e dai pazienti stessi. Quali sono gli strumenti che ogni medico ricercatore ha a disposizione per alimentare la propria speranza di migliorare? Prima di tutto, l’esperienza. Ogni bambino visitato, ogni quadro clinico su cui si ragiona, ogni genitore che ci spiega cosa nota e cosa lo preoccupa, ci arricchisce, aggiunge un pezzetto al puzzle che costituisce la nostra competenza. In secondo luogo, la scienza, il progresso nelle conoscenze sulle malattie che curiamo. Se penso a quello che si sapeva delle malattie di cui mi occupo, le nefropatie immuno-mediate principalmente, quando ho iniziato, e quanto ne sappiamo oggi, non posso non nutrire speranza nel futuro della medicina. Capiamo sempre meglio quali siano i meccanismi alla base di queste malattie, e di conseguenza quali possano essere approcci innovativi per curarle. Abbiamo strumenti e tecniche che moltiplicano le possibilità di analizzare a diversi livelli campioni biologici di sangue e tessuti per raccogliere informazioni preziose, mezzi informatici di creazione e condivisione di quantità enormi di dati che possono velocizzare e affinare enormemente l’elaborazione di risultati utili. Riusciamo a dare un nome sempre più spesso a quadri clinici complessi che non ne avevano, e dal nome deriva la possibilità per i pazienti di trovare compagni di viaggio, per i loro curanti di condividere informazioni da cui deriveranno percorsi diagnostici e terapeutici migliori. Questo ci conduce al terzo punto chiave per il nostro miglioramento: la collaborazione coi colleghi, dentro e fuori dall’ospedale.
Ogni giorno, il dialogo con altri medici di ogni specialità, con infermieri, fisioterapisti, dietisti, psicologi, logopedisti ci fa crescere e molto spesso ci diverte e ci conforta. Poi ci sono i colleghi giovani, i medici e gli specialisti in formazione, i colleghi meno esperti, con cui il confronto continuo, i dubbi e le domande, ci mettono in gioco, ci costringono a riconsiderare le nostre certezze e a renderci modelli per loro. Infine ci sono le collaborazioni con colleghi di altri centri italiani ed esteri, con cui si condividono esperienze, idee, progetti, frustrazioni e, a volte, successi. Ho lavorato, oltre che a Roma, a Boston e a Londra, e attualmente collaboro con medici in Europa attraverso un network europeo di malattie rare renali, con diverse società scientifiche internazionali per la stesura di linee guida, e con ricercatori italiani ed esteri in progetti di ricerca di laboratorio. Lo scambio di idee, metodiche e risultati è il motore della ricerca, sempre con l’obiettivo di migliorare le cure dei nostri pazienti. Da qualche anno il mio lavoro si è focalizzato sempre più sulla sperimentazione clinica, quindi sul disegno e sull’implementazione di studi in cui si valutano la sicurezza e l’efficacia di farmaci innovativi in patologie pediatriche, non solo renali, che non hanno al momento opzioni terapeutiche efficaci e comprovate. Per un medico pediatra e ricercatore che non vuole abbandonare mai la speranza di guarire i pazienti, questo tipo di attività è un grande privilegio, oltre ad essere una grande responsabilità. Con la sperimentazione clinica abbiamo l’opportunità di aprire nuove strade, di offrire nuove soluzioni, non solo per i bambini che partecipano alla sperimentazione, ma anche per tutti quelli con quadri clinici sovrapponibili che beneficeranno delle informazioni accurate e dettagliate che noi raccogliamo documentando l’esperienza dei nostri pazienti. Un bimbo e una famiglia che intraprendono questo percorso sono mossi dalla fiducia nella ricerca medica, e dalla speranza. Il nostro compito è di proteggerli e di incoraggiarli, assumendoci con loro la responsabilità di questa scelta, condividendo anche la delusione e la frustrazione nostra ma soprattutto loro che inevitabilmente può derivare da un trattamento inefficace o non tollerato. Come potete immaginare, non è sempre facile. Al centro di tutto, ci sono i pazienti. Ogni giorno mi imbatto nel dolore e nella sofferenza, ma insieme anche nella resilienza, nella imprevedibile e straordinaria grazia con cui i bambini malati che cerco di curare e le loro famiglie a cui cerco di dare conforto trovano una strada, per ognuno diversa, da seguire per percorrere il cammino verso la guarigione o per imparare a convivere con una situazione difficile che mai avrebbero potuto immaginare. Le malattie di cui mi occupo sono principalmente malattie renali, per lo più croniche, che in alcuni casi possono portare alla necessità di dialisi e trapianto. La diagnosi spesso arriva del tutto inaspettata, cambiando in pochi istanti la vita di chi la riceve e dei suoi familiari.
La terapia spesso è impegnativa, ha effetti collaterali sgradevoli e comporta rischi. Cerco di parlare con le famiglie dei pazienti definendo questi periodi di terapia delle parentesi che si aprono e poi si chiudono, e di spiegare come il ciclo di terapia sia un investimento che facciamo, insieme, per il futuro, per la salute del loro bambino. Negli anni ho imparato quanto ogni famiglia di un bambino gravemente malato, indipendentemente dalla propria condizione sociale e culturale, dalle proprie barriere linguistiche ed economiche, riesca ad evolvere nell’accettazione costruttiva della diagnosi, riesca ad imparare, per esempio, a gestire terapie complesse e trattamenti dialitici anche a domicilio, a modificare la dieta e le abitudini del loro bimbo malato e di tutta la famiglia in maniera spesso radicale. Ho visto quanti sacrifici si imparano a fare, ma anche quanto si riesca anche nella difficoltà a trovare gioia o perlomeno sollievo. Questo non finisce mai di stupirmi e di donarmi speranza nello spirito di ogni persona, che in nome dell’amore per un figlio supera i propri limiti. Poi c’è la speranza di guarire, che la malattia passi, la speranza in una cura, in una soluzione. Questo apre un capitolo molto delicato, quello della corretta comunicazione coi pazienti e con le loro famiglie, in cui noi come medici ci troviamo a dover bilanciare con attenzione e umanità la trasparenza nel dare informazioni complete, oltre che quanto più possibile chiare, evitando di dare false aspettative, ma al tempo stesso a non chiudere mai la porta alla speranza. Questo non solo per non scoraggiare chi ci ascolta cercando con tutte le sue forze un messaggio rassicurante, ma anche e soprattutto perché la medicina non è una scienza esatta, le malattie e le persone che ne sono affette non sono dei numeri e delle statistiche ma, almeno in una certa misura, dei misteri, che nessun medico, per quanto competente, può prevedere fino in fondo. In questo mistero, in questa ineluttabile capacità di ciascun malato di smentire anche le più solide e ragionevoli previsioni, può e deve alimentarsi la speranza di ognuno di noi, in una soluzione positiva anche quando le probabilità e i calcoli non ci sono favorevoli. Nessuno di noi ha tutte le risposte, e questo ci deve rendere umili, curiosi, e aperti alla speranza, al buono che può celarsi anche nel dolore e nelle avversità.
Responsabile Centro Trials Ospedale Pediatrico Bambino Gesù - Roma

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