Dialogo con un ragazzo in piazza per Gaza e il no allo scontro. Fermiamoci
Le posizioni di chi ha tentato di bloccare la Stazione Centrale e chi si appella al confronto non violento. Con una amara consapevolezza: sulla guerra la politica lascia spazio al radicalismo

Dialogo politico con un ragazzo che lunedì era in stazione Centrale a Milano.
Alla fine avete “tradito” e in qualche modo “rovinato” una bella manifestazione pacifica, partecipata da giovani e adulti, perfino da intere famiglie con i bambini, che chiedevano la fine della guerra a Gaza e la coesistenza di due Stati in Terra Santa. Usare la guerriglia contro la guerra è non solo inaccettabile perché sono rimasti feriti decine di agenti di polizia e alcuni giovani, ma è pure contraddittorio e controproducente per le ragioni stesse della protesta.
«Ma quale guerriglia? Non sarebbe accaduto nulla se ci avessero fatto passare e avessimo potuto bloccare per qualche ora i binari della stazione. La manifestazione aveva uno slogan: “Blocchiamo tutto” e volevamo davvero bloccare tutto per “sbloccare” la posizione del Governo e dell’Italia rispetto alla tragedia di Gaza, di cui siamo non solo spettatori passivi non riconoscendo lo Stato di Palestina, ma persino complici continuando a sostenere il Governo Netanyahu, fornendo armi e supporto logistico al massacro di un intero popolo».
Avete tirato sanpietrini, pali e quant’altro ai poliziotti, avete sfondato vetrine, è inaccettabile. Ci sono, per me, due limiti assoluti: il rispetto della vita e dell’integrità delle persone, a cominciare da chi serve lo Stato, cioè tutti noi, garantendo l’ordine pubblico. E il rispetto della legge, anche quando non piace, anche quando non si è d’accordo. Il ricorso alla violenza squalifica qualsiasi ragione delle proteste, anche di quelle giuste.
«Non ho tirato nulla contro gli agenti, ma sì ero lì per bloccare i treni. La violenza, per altro, è stata esercitata anche nei nostri confronti con un lancio esagerato di lacrimogeni, con manganellate ingiustificate. E soprattutto con la repressione della protesta, come dimostra il decreto sicurezza approvato di recente. Il rapporto di forza tra gli agenti in tenuta antisommossa e i ragazzi in corteo è tutto a loro favore. Ci sono dei momenti, come questo, nei quali lo scontro sociale si rende necessario. Perciò sciopero generale, manifestazione e occupazione dei binari andavano fatti. Poi mi parlate di rispetto della legge sempre? E l’obiezione di coscienza? E il rifiuto dell’uso e della fornitura delle armi alcune volte sì, altre no, a seconda di quale Paese è in guerra?».
L’obiezione di coscienza è sempre un atto pacifico, che “costa” un sacrificio personale (in termini di libertà o professionale) e si esercita per difendere la vita altrui, oltre che i principi in cui si crede, non per ferire quella di altri. E poi c’è il rischio di essere strumentalizzati o servire una causa non “cristallina”. La vicenda di Israele e Palestina, di Netanyahu e Hamas è complessa, i torti non stanno tutti dalla stessa parte, c’è stato il pogrom del 7 ottobre, i terroristi non liberano gli ostaggi…
«Sì, un massacro terribile, un atto terroristico disumano. Se vuoi stiamo qui tre ore a parlare anche dell’oppressione di Israele nei confronti dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, della violenza quotidiana dei coloni, dei mancati accordi sullo scambio tregua-ostaggi, delle proteste in Israele stesso, possiamo andare indietro fino alle responsabilità occidentali e dei Paesi arabi dal 1948 in poi. Ma l’urgenza adesso è fermare il genocidio in atto, quanti altri bambini devono essere uccisi perché il Governo e l’Italia non siano più complici di Israele? La tua coscienza quale limite mette? Anche la nostra è una forma di obiezione di coscienza al massacro che sta avvenendo a Gaza. Questi morti non pesano sulla nostra coscienza? Abbiamo sostenuto le organizzazioni che assistono le persone nella Striscia, abbiamo protestato in università e ovunque. Ma ormai non basta più nemmeno urlare, neppure in una manifestazione di massa, che non si è d’accordo, che l’Italia deve cambiare posizione, perché la verità è che il dissenso pacifico viene totalmente ignorato. Evidentemente serve un’azione politica più incisiva, almeno sul piano dimostrativo, sì lo scontro sociale è necessario perché cambi qualcosa. E se ci saranno denunce sarà il prezzo di questa obiezione».
Attenzione, perché così la china si fa pericolosa. Le azioni politiche “più incisive” sono quelle che hanno funestato gli anni ’70 e ’80. Di violenza verbale e non solo ne abbiamo già oggi abbastanza. Allo scontro sociale preferisco di gran lunga la partecipazione, il dialogo e il confronto. Riconosco un solo metodo che è quello democratico: la manifestazione del proprio pensiero, la protesta pacifica, il voto, la rappresentanza che nel nostro Paese sono libertà garantite.
«Non c’è alcuna intenzione di ritornare al terrorismo né volontà di ferire gli agenti. Ma il confronto e il dibattito politico sono inesistenti. E non si può delegare tutto solo al voto politico una volta ogni 5 anni… Ci sono fasi storiche in cui bloccare i treni o perfino spaccare una vetrina può essere necessario».
E qui il dialogo si chiude. Perché, al di là delle preoccupazioni comuni per le vittime civili di ambo le parti e invece il dissenso profondo sul tema dello scontro sociale, il punto su cui è impossibile ribattere è quello della pochezza, se non inesistenza del dibattito politico nel nostro Paese. Si trova il tempo di normare la presenza dei cani a bordo degli aerei, ma non quello per discutere - in Parlamento, nella sede democratica per eccellenza - della guerra a Gaza, dei suoi 60mila morti dopo i 1.200 in Israele, di quale atteggiamento assumere, se votare sanzioni ed embarghi o quali canali diplomatici alimentare. Quando invece se ne parla fuori è solo per vomitare insulti sull’avversario di destra o sinistra che sia.
Fermiamoci. È un tempo di lutto, questo. E se non ne vogliamo altri in Terra Santa, come in Ucraina, e magari violenze anche da noi, apriamo in Parlamento una sessione speciale di una settimana di dibattito solo sulle guerre. Dando l’esempio di come un Paese democratico agisce: votando a maggioranza dopo un confronto aperto tra forze politiche responsabili, che non si insultano e non si danno reciprocamente degli assassini, che dismettono – loro per primi – la logica disumanizzante del nemico. O si lascerà spazio solo al radicalismo da una parte e dall’altra.
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