Così il mito della “guerra giusta” sta rovesciando il mondo
La Storia si vendica sempre dell’incoerenza e dell’abuso. L’alternativa alle regole è il ritorno alla forza come misura nei rapporti fra Stati, ha ammonito il presidente Mattarella

Il mito della “guerra giusta” sta rovesciando il mondo. L’egemone che si prepara a versare il sangue confeziona narrazioni per propagandare la propria causa. Le cuce con cura, su misura per il proprio pubblico. Le colma di appelli emotivi per eccitare odio, rabbia, paura, entusiasmo. Galvanizza i combattenti, mobilita le masse, demonizza il nemico, forgia alleanze politiche, falsifica, manomette, manipola. Per giustificare il dispendio di sangue e di dolore che s’annuncia descrive il momento come fatale, apocalittico, l’occasione come storica e irripetibile. Presenta la guerra come ineluttabile difesa dai malvagi, benedetta dalle forze celesti. La battezza santa, igiene del mondo, scontro di civiltà, battaglia fra il Bene e il Male. Promette armonia, verità, prosperità, sicurezza. Pace. Non è mai così. La guerra non è mai un intervallo di tormenti collettivi dopo i quali tutto torna a ricomporsi. È eversione. Spesso i governi finiscono col credere alla propria stessa propaganda e si illudono di padroneggiare le dinamiche della violenza. I conflitti invece quasi sempre si trasformano in scontri parossistici incrementali, che la politica è incapace di contenere. La guerra segue logiche inumane, che l’uomo non può controllare. Quando si esaurisce, per debellatio, tregua o pace, resta l’odio. Le ferite collettive di stermini, stupri e torture si rimarginano in decenni o secoli. O mai. Sarà così anche per i conflitti della contemporaneità che si trascinano senza termine, obiettivo e misura. Gli avversari non mirano che al reciproco annientamento e si accaniscono sui civili incolpevoli.
Per capire i nostri tempi dobbiamo riprendere in mano i libri di Storia, e i dizionari. Il passato non è un capitolo chiuso. La Storia è uno specchio davanti al quale ci siamo noi. E nella Storia si trova l’etimo, il significato vero, reale e vivo delle parole. Bisogna avere cura delle parole. Indagare le parole a partire dalle cose, e non le cose a partire dalle parole.
Da alcuni decenni è in voga in politica la formula della “legittima difesa preventiva”: la guerra cautelare, mossa in via anticipata. Colpire per primi. Il Male per precorrere il Male. In diritto è un ossimoro. La violenza si può usare a buon diritto per preservare sé stessi o altri da un attacco ingiusto in corso o incombente, non per anticipare un’offesa solo ipotetica. Se un uomo empio si introduce nottetempo armato nella casa del nemico che ha giurato di uccidere, quest’ultimo può premere il grilletto per primo per sventare il programma delittuoso, sempre che non abbia alternative. Ma se lo aggredisce mentre quello se ne sta in casa propria non è che un assassino.
Vale anche in diritto internazionale. Da ottant’anni il fondamento della comunità degli Stati è il divieto di usare la forza armata. La libertà tradizionalmente assoluta di ricorrere alla guerra cade nel 1945 con la Carta delle Nazioni Unite che proibisce la violenza armata. Non fu invenzione estemporanea e capricciosa dei convenuti a San Francisco. L’umanità era stata annichilita dai conflitti mondiali. Erano stati sterminati milioni di ebrei, intere etnie e nazionalità. Erano morti civili e militari a decine di milioni. Restavano macerie, miseria, lutti e odio. Si doveva sancire inequivocabilmente l’illegittimità della guerra d’aggressione e conquista, e si permise l’uso della forza armata solo nell’esercizio del «diritto naturale di autotutela».
Certi Stati particolarmente avvezzi alla violenza organizzata cercano di giustificare le proprie azioni militari invocando la legittima difesa «preventiva», cioè intesa a scongiurare il pericolo di un’aggressione futura. La maggior parte degli studiosi la ritengono illegale. Chi l’ammette pone giustamente limiti stringenti. L’attacco da evitare deve essere imminente. La necessaria capacità deve essere stata acquisita e la decisione irrevocabilmente assunta. Il momento in cui si usa la forza deve essere l’ultima opportunità per impedire l’attacco.
Altrimenti la “difesa” non è che aggressione. Questo fu l’intervento americano in Iraq del 2003. Il regime di Saddam Hussein è malvagio, sanguinario. Gli Stati Uniti l’accusano di possedere armi chimiche che potrebbe trasferire a terroristi, i quali potrebbero usarle contro di loro. Mettono in piedi una possente campagna propagandistica e invadono, convinti che sarà affare veloce. Restano invece intrappolati. Muoiono centinaia di migliaia di civili e migliaia di soldati occidentali. Di armi di distruzione di massa non c’è traccia. Gli occupanti azzerano l’intera amministrazione, militare e civile, innescando caos, settarismo e terrorismo che si propagano ovunque. Saddam Hussein è giudicato in un processo farsa imposto dagli occupanti e impiccato frettolosamente. L’Iraq cade sotto l’influenza del nemico persiano. Il popolo iracheno non smette di soffrire.
La parabola irachena non è automaticamente applicabile a situazioni distinte. Le formule normative si interpretano di volta in volta nei casi concreti. È però una lezione politica. Gli Stati devono guardarsi dalla tentazione di doppie e triple morali, condannando le iniquità dei nemici e condonando quelle di alleati e amici. Agire e parlare con prudenza e lungimiranza. La Storia si vendica sempre dell’incoerenza e dell’abuso. L’alternativa alle regole è il ritorno alla forza come misura nei rapporti fra Stati, ha ammonito il presidente Mattarella.
Il diritto non è la principale vittima. L’abuso della forza innesca spirali incontrollabili di violenza vana, primitiva, indiscriminata che si risolvono nella vendetta, nella punizione collettiva di civili, soprattutto bambini «che non cessano di essere dilaniati dalle bombe» – parole di Papa Leone –, deportati, affamati, assetati a morte. Ma se l’agonia dei bambini serve a raggiungere la somma di tutte le sofferenze necessarie per l’acquisto della verità, se questo è il prezzo da pagare per l’armonia eterna, meglio, come Ivan Karamazov, affrettarsi a restituire il biglietto.
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