Chi ha paura di Carlo Nordio? (Per una giustizia costituzionale)

Obbligatorietà dell’azione penale e intercettazioni, su molti temi manca un confronto vero, svincolato dalle contingenze politiche, fra tutti gli attori coinvolti: magistratura, avvocatura, univer
December 13, 2022
Chi ha paura di Carlo Nordio? (Per una giustizia costituzionale)
Ansa | Giustizia, fa discutere la riforma annunciata dal ministro Nordio. Foto dal tribunale di Milano
In un’intervista a “il manifesto” di alcuni giorni fa, Nello Rossi, direttore della rivista “Questione giustizia”, auspicava che i magistrati non rimangano stretti nella tenaglia tra l’atteggiamento polemico del guardasigilli Nordio e una «reazione di segno eguale e contrario che contrasti in toto la sua politica, coinvolgendo nel giudizio negativo anche i suoi tratti di garantismo». Pensiamo che questo sia l’auspicio di un’ampia opinione pubblica, diffusa in tutti gli schieramenti, anche se il pessimismo della ragione ci dice che ciò difficilmente avverrà. Perché, qualunque cosa si pensi delle proposte di Carlo Nordio, non si può negare che esse tocchino problemi reali, elusi da anni dalle correnti di pensiero maggioritarie nella magistratura e dai suoi tifosi incondizionati.
Si pensi all’obbligatorietà dell’azione penale: è indiscutibile che l’articolo 112 della Costituzione (che la prevede con parole chiare e inequivocabili) sia stato concepito come baluardo dell’indipendenza della magistratura, che verrebbe intaccata da qualunque tipo di dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo. Ma soltanto un cieco può negare che l’obbligatorietà sia un orizzonte cui tendere, destinato però a non essere mai raggiunto. E che l’enorme espansione del ruolo del giudiziario di questi ultimi decenni ha attribuito alle Procure una discrezionalità di fatto inimmaginabile nel 1948. Non si tratta tanto del decidere se indagare o no su un certo reato. Ma di scelte organizzative che incidono sul concreto esercizio dell’azione penale.
Alcuni esempi? Eccoli. Perché il pubblico ministero può decidere di «spostare il fascio di luce delle indagini» (espressione resa celebre da un procuratore della Repubblica) su un fenomeno criminale a scapito di un altro? Perché per alcuni reati vengono istituiti, all’interno delle Procure, gruppi di lavoro specializzati mentre su altri reati le indagini sono distratte e routinarie? Perché, di fronte a una denuncia per un certo delitto, un pubblico ministero può decidere di disporre intercettazioni telefoniche, complesse e lunghe indagini bancarie, rogatorie all’estero; mentre un altro pubblico ministero procede con i piedi di piombo e con mezzi di prova molto meno invasivi? Perché determinati fascicoli, che riguardano reati di minore gravità, sono messi, per decisione di un procuratore della Repubblica, sul binario morto della sicura prescrizione, con l’intento di dedicare le energie investigative a fatti più gravi; mentre il procuratore di un’altra città manda avanti, fino al rinvio a giudizio, i procedimenti per gli stessi reati?
Perché una certa indagine viene privilegiata, seguita direttamente in ogni suo passo dal pubblico ministero, che vi dedicherà tempo, intelligenza, lavoro intenso, collaborazione stretta con i poliziotti migliori, sacrificando ad essa altri fascicoli, burocraticamente affidati per le indagini alla polizia, non diretta personalmente? Sono tutte scelte (insindacabili) che avranno conseguenze decisive sullo sviluppo e l’esito delle indagini. Sono queste le scelte che – ha scritto su queste colonne Mario Chiavario – costituiscono una reale discrezionalità di fatto: «Coprono un potere che va disciplinato». Come? Questo è il nodo. Su cui la discussione dovrebbe essere aperta. Coniugare indipendenza e responsabilità. Perché essere indipendenti non significa essere irresponsabili. Sfida difficile. Ma da qui bisogna passare.
Un discorso simile vale per le intercettazioni; che devono rimanere affidate al controllo esclusivo di un magistrato. Ma come negare che nell’uso di questo prezioso strumento di indagine vi siano state gravi distorsioni? Il problema non è soltanto l’inammissibile (ma ricorrente) diffusione di conversazioni attinenti esclusivamente alla vita privata dei cittadini. Il punto critico è ancora più profondo. È che – come ricorda Giovanni Maria Flick – si tende a dimenticare che il codice ammette le intercettazioni soltanto quando sono «assolutamente indispensabili» per proseguire le indagini. L’avverbio «assolutamente » è spesso dimenticato. Si potrebbe dire: ma allora, basta applicare la legge esistente. Ma se a disapplicare la legge sono i magistrati che ne sono custodi?
Quante volte, per giustificare intercettazioni particolarmente estese e prolungate, abbiamo sentito dire: « In quel caso le intercettazioni erano utili!». Ma ci vogliamo ogni tanto ricordare che nella vita, e tanto più nel processo, non tutto quello che è utile è anche giusto? Cosa risponderemmo a chi ci venisse a dire che le torture degli americani a Guantanamo sono state molto utili per fare confessare molti terroristi? D’accordo: il paragone è esasperato. Ma ci aiuta a capire che la risposta «è utile alle indagini» non può soddisfarci. E che ciò che secondo la Costituzione costituisce l’eccezione non può diventare la regola. L’articolo 15 della Carta consacra come «inviolabile» la libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione.
Certo, il capoverso di quell’articolo aggiunge che anche quel diritto di libertà può essere limitato con un atto motivato dell’autorità giudiziaria. Ma chi è chiamato a esercitare questo terribile potere dovrebbe farlo soltanto dopo un ponderato bilanciamento dei princìpi in gioco: da un lato il dovere di esercitare l’azione penale di fronte a un reato; dall’altro, la libertà di comunicare. E non farebbe male a meditare quanto sia costato, in passato, nella storia italiana, il sacrificio di questa libertà.
Su questi temi manca ormai da decenni un confronto reale, svincolato dalle contingenze della politica, fra tutti gli attori coinvolti (università, avvocatura, magistratura): un’elaborazione culturale che sappia ispirare le scelte che la politica autonomamente dovrà compiere. Nessuna grande riforma della giustizia è possibile se qualcuno di questi attori rimane rinchiuso nella propria torre di avorio. La magistratura sarà capace di abbandonare gli anatemi interdittivi e di essere protagonista di questo confronto? Speriamo che ciò accada, come auspica Nello Rossi. Che il pessimismo della ragione sia sconfitto dall’ottimismo della volontà.
Magistrato, già procuratore aggiunto di Torino

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