A Gaza un genocidio sì o no? Ma il vero crimine è disumanizzare
Dibattere sulla qualificazione dei massacri in corso non è inutile, ma neppure è sufficiente. Va ribadito che tali massacri restano comunque il frutto di crimini gravissimi

Divampa, da qualche giorno, essenzialmente sulle pagine di Repubblica, ma non solo, una discussione sulla questione se i massacri di civili, in corso a Gaza, siano qualificabili come genocidio. Tutti oramai conoscono le posizioni di Grossman e Segre. Posizioni contrastanti, a questo riguardo, ma sostanzialmente coincidenti nel derivare da un peculiare punto di vista; ossia, quello proprio della comune appartenenza al popolo ebraico di chi le ha espresse. Su di esse non voglio qui tornare, anche se, dinanzi all’enormità di quanto è già accaduto, e di quel che ancora si prospetta (con la ripresa annunciata dell’occupazione militare della striscia), forti perplessità si sono diffuse, nell’opinione pubblica, sull’“utilità” di questo dibattito.
Ma è davvero inutile confrontarsi su tale problema, oggi? E ancora: è a ciò che bisogna limitarsi, o gli eventi in corso ci dicono qualcosa di più ampio, cui pure occorre rivolgere l’attenzione? Quando si parla di genocidio a proposito dei massacri in corso a Gaza, non bisogna mai dimenticare che questo crimine è stato invocato anzitutto dalle vittime civili, residenti nella Striscia, e da alcuni movimenti palestinesi indipendenti, non legati ad Hamas. Uso politico del termine? Sì, d’accordo; ma in modo analogo a quanto già è avvenuto, in passato, da parte delle vittime civili di altri massacri, per attirare l’attenzione sulla loro condizione. Di sicuro più ampio, rispetto al passato, è invece l’uso che ne è stato fatto da movimenti politici, non direttamente collegati alle vittime. Non mi sembra, però, che quest’ultimo fenomeno costituisca semplicemente un sintomo di antisemitismo, rectius, antiebraismo.
Perlomeno dal mio punto di vista (di giurista), in esso si esprime una forma di denuncia della macroscopica insufficienza delle posizioni assunte dalla comunità internazionale (intesa come comunità interstatale), dinanzi alla macroscopica devianza, rispetto a norme fondamentali del diritto internazionale, della risposta israeliana ai tremendi crimini del 7 ottobre.
Ma il crimine di genocidio resta, prima di tutto, una figura giuridica, mi si dirà. Anche qui, non vi è dubbio. Dovrà essere la Corte internazionale di giustizia (Cig), che si sta occupando del caso, ad accertarne la sussistenza, sul piano della responsabilità di Israele come Stato. E dovrà farlo, a differenza di quanto si è sostenuto, in via del tutto indipendente dall’assimilabilità (o meno) della situazione di Gaza alla Shoah. Vale a dire, in attuazione di quelle stesse norme, e dei medesimi principi, applicati alla tragedia ruandese nonché a quella di Srebrenica, e derivanti dalla Convenzione sul genocidio del 1948, di cui sono parte, oggi, ben 153 Stati. Finché quelle norme saranno vigenti, esse sono applicabili a qualsiasi ipotesi di genocidio, anche quando questa riguardi solo una parte di una certa popolazione. Quale che sia la sentenza cui giungerà la Corte, se ne potrà discutere, naturalmente, ma quanto precede non è discutibile. Né sono discutibili gli obblighi di prevenzione che detta Convenzione pone a carico, si badi bene, anche di Stati terzi rispetto al conflitto, come chiarito dalla stessa Cig. Obblighi, questi ultimi, sistematicamente violati da Israele, e sulla cui osservanza, da parte di detti Stati (in primis, quelli europei), vi sono dubbi pesantissimi.
Se, dunque, dibattere sulla qualificazione dei massacri in corso non è inutile, neppure è sufficiente. Si configurino, o meno, come frutto di un genocidio, va invece ribadito che tali massacri restano comunque il frutto di crimini gravissimi, contro l’umanità, o di guerra, compiuti sistematicamente, per di più da truppe di uno Stato che si dice liberal-democratico. E va detto, forte e chiaro, che il tutto è occorso, e occorre, in aperto dispregio del divieto – inderogabile – di commettere violazioni di diritti umani fondamentali, foss’anche a titolo di reazione a violazioni dello stesso tipo, come gli omicidi di massa, la presa (e il mantenimento) di ostaggi, o anche l’uso di scudi umani, da parte di Hamas.
Insomma: il contributo così dato alla disumanizzazione dei civili palestinesi sembra configurarsi come uguale e contrario a quello derivante da atti di terrorismo, ai danni dei civili israeliani. Anche questo va, tristemente, visto nel prisma del diritto. Ciò perché il divieto in questione non è altro che una conquista fondamentale del diritto internazionale contemporaneo. Limitarsi alle dichiarazioni, evitare atti concreti, netti, inequivocabili, di opposizione alla deriva in corso, significa contribuire allo smantellamento, in senso tecnico, di una simile conquista. Una scelta sbagliata e miope, i cui effetti potrebbero riguardarci, prima o poi.
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