domenica 15 ottobre 2017
Nel mercato del cacao e dei derivati Costa d'Avorio e Ghana producono il 60% della materia prima ma incassano meno del 5% dei profitti. Ora vogliono sviluppare un'industria locale.
Barrette di cioccolato in una fabbrica di Tema, in Ghana (Julian Ernst per la Banca Mondiale)

Barrette di cioccolato in una fabbrica di Tema, in Ghana (Julian Ernst per la Banca Mondiale)

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Nell’Africa occidentale è appena iniziata la stagione della raccolta del cacao e i 2 milioni di contadini che ci lavorano tra Costa d’Avorio e Ghana sanno che sarà un’ottima annata. L’Icco, l’organizzazione internazionale del cacao, prevede il raccolto più abbondante di sempre: 4,7 milioni di tonnellate a livello mondiale, con un aumento del 18% rispetto all’anno scorso. In Costa d’Avorio, che è il primo produttore al mondo, si potrebbe raggiungere il record storico di 2 milioni di tonellate. In Ghana, secondo produttore, si punta a quota 850mila.

Ma la logica del mercato non è quella del contadino. Ed è tanto semplice quanto impietosa: se l’offerta di un prodotto aumenta e la domanda non cresce altrettanto il prezzo di quel prodotto non può che scendere. È quello che sta capitando al cacao. La domanda mondiale cresce, ma con un più modesto +3,7% non tiene il ritmo della produzione. Quindi 371mila tonnellate di fave della stagione 2016-2017 sono destinate a finire in magazzino. In un anno le quotazioni internazionali sono precipitate di un terzo sul mercato europeo e di un quinto su quello americano.

Il costo di proteggere i contadini dal mercato

Costa d’Avorio e Ghana storicamente hanno scelto di proteggere i loro contadini dai pericoli della volatilità del mercato. Il sistema prevede che le rispettive autorità nazionali – il Consiglio del Caffè e del Cacao per la Costa d’Avorio e il Cocoa Board per il Ghana – fissino all’inizio della campagna i prezzi ai quali compreranno il cacao dai produttori, spostando dai contadini ai governi parte del rischio di mercato. Il 1° ottobre la Costa d’Avorio ha annunciato un taglio del 30% del prezzo di acquisto, che scende da 1.100 a 700 franchi Cfa al chilo. Al cambio attuale significa 1,07 euro. Il Ghana ha fatto la scelta, evidentemente più popolare, di non tagliare, lasciando il suo prezzo di acquisto a 7,6 cedi al chilo, cioè a 1,46 euro ogni mille grammi. La sensibile differenza dei prezzi incoraggia il contrabbando, con produttori ivoriani che portano illegalmente in Ghana i raccolti per aumentare l’incasso.

Ma questo è il meno. Secondo stime lasciate filtrare da un funzionario dell’esecutivo ghanese all’agenzia americana Bloomberg, la scelta di mantenere il prezzo ai livelli della campagna precedente significherà che, tolte le spese, Accra finirà con il perdere 1,48 cedi (29 centesimi di euro) ogni chilo di cacaco comprato e questo creerà un buco da circa 280 milioni di dollari nelle casse pubbliche. Un bel problema per un paese da tre anni sottoposto a un programma di aiuti da 920 milioni di dollari del Fondo monetario internazionale, che chiede per prima cosa un taglio del deficit nei conti nazionali. Gli stessi soldi che il Cocoa Board pagherà ai contadini sono stati presi in prestito, con un finanziamento da 1,3 miliardi di dollari ottenuto da un consorzio di banche europee, asiatiche e africane completato pochi giorni fa.

Il ministro delle Finanze Ken Ofori-Atta ha fatto presente che il governo non può tenere i prezzi a quei livelli per sempre. Sia in Ghana che Costa d’Avorio occorre rendere sostenibile anche dal punto di vista delle finanze pubbliche lo sfruttamento di una delle principali ricchezze nazionali. Entrambi i paesi vogliono riuscirci spostandosi lungo la catena globale della produzione di valore del mercato del cacao. Il presidente ghanese Nana Akufo-Addo lo ha spiegato molto chiaramente al Bloomberg Business Forum di New York, lo scorso settembre. Il mercato mondiale del cacao e dei suoi derivati vale più di 100 miliardi di dollari – ha ricordato il leader in carica dallo scorso gennaio – Ghana e Costa d’Avorio, che assieme producono il 60% della materia prima, nel 2015 hanno incassato rispettivamente 2 e 3,5 miliardi di dollari dalla vendita del cacao. I due Paesi non possono più accontentarsi di una fetta minima di questi profitti.

All'attacco della catena del valore

L’unico modo di spostarsi lungo la catena dal valore è conquistare spazio nelle fasi produttive che vengono dopo la raccolta. Su una stima di un mercato globale del cacaco da 124 miliardi di dollari, solo 9 miliardi di profitti vanno a chi produce la materia prima, mentre 28 miliardi sono per i prodotti grezzi (la pasta di cacao) e ben 87 per i prodotti finiti. È lì che Ghana e Costa d’Avorio vogliono arrivare. «Dobbiamo fare noi il cioccolato. Per adesso, un po’ per negligenza da parte nostra e difficoltà nel mobilitare le finanze e la tecnologia, non siamo stati capaci di farlo. Dobbiamo trovare un modo di connettere la materia prima al prodotto finito» ha spiegato Akufo Addo.

I governi di Accra e Yamoussoukro stanno dialogando per calibrare una strategia comune con l’obiettivo di costruire in Africa l’industria per la produzione di un cioccolato che sia appetibile sui mercati internazionali. È una sfida lanciata ai giganti del settore in America, Europa e Asia. Cioè a gruppi come Barry Callebaut e Cargill, che assieme fanno quasi il 50% della macinazione del cacaco mondiale, e a colossi del cioccolato lavorato, a partire da Mars, Mondelez, Nestlè, Ferrero, Hershey e Meiji.

Con simili nomi in gioco si capisce che per gli africani sarà una partita difficilissima. Riuscire a raggiungere le competenze industriali necessarie a competere con i gruppi occidentali è tutt’altro che scontato. Ed è già arduo, tanto per iniziare, trovare i finanziamenti per sviluppare questo know how. Dopodiché ci sono barriere commerciali da superare. In Europa, Stati Uniti e Giappone non esistono dazi sull’importazione di fave di cacao, d’altra parte non ci sono coltivatori occidentali da proteggere, ma tariffe significative sugli acquisti dall’estero di cacao in polvere e derivati offrono alle industrie un rassicurante riparo dai concorrenti stranieri. Il mondo si è già organizzato perché nel grande ring dei mercati globalizzati l’Africa non possa fare poi tanto male.

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