«Democrazia in pericolo. L’Europa deve scegliere tra beni comuni e armi»

di Elisa Campisi inviata a Firenze
Gaël Giraud, economista e gesuita, avverte: «Militarizzazione e privatizzazioni rischiano di spezzare il patto sociale europeo. Servono spazi di confronto per trovare progetti condivisi»
October 1, 2025
«Democrazia in pericolo. L’Europa deve scegliere tra beni comuni e armi»
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«La minaccia più grossa per la nostra democrazia oggi è la mancanza di uno spazio comune in cui la società civile può discutere su un progetto politico e trovare insieme soluzioni alle situazioni drammatiche che stiamo vivendo anche a livello internazionale. Non aiuta, in questo senso, neppure la privatizzazione dei media e della comunicazione. Ma salvare questo spazio comune è la cosa più importante», così Gaël Giraud – economista francese, gesuita e dottore in teologia, direttore di ricerca del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) di Parigi – racconta ad Avvenire uno degli aspetti che lo preoccupa di più dell’attuale rapporto tra economia e democrazia. Quali sono le diseguaglianze socio-ambientali nello scenario attuale è stato anche il centro del suo intervento di ieri al Festival di Firenze, oltre che argomento del suo ultimo libro “Costruire un Mondo Comune”.
Quindi sta a noi costruire questo spazio comune?
Sì. Cristo ha lasciato vuoto il trono del potere al momento dell’Ascensione per dare a noi la possibilità di costruire questo mondo comune, decidendo che istituzioni creare e come usare risorse fondamentali come l’acqua e l’aria. Il bene comune è anche la radice del cristianesimo. La Bibbia e il Vangelo possono essere dunque interpretati come un manifesto della democrazia.
A proposito di condivisione, il protezionismo minaccia la democrazia?
Il protezionismo c’era anche in Europa tra il 1945 e il 1980 per fare un esempio, ma a differenza di oggi non c’erano guerre e la democrazia funzionava meglio. Il problema, dunque, è piuttosto il protezionismo di ispirazione fascista alla Donald Trump, che minaccia la democrazia europea nella misura in cui vuole instaurare un imperialismo assoluto degli Stati Uniti. Il suo obiettivo è costringere noi europei a finanziare a vita il debito americano e reindustrializzare il proprio Paese a danno delle nostre industrie e della nostra democrazia.
Anche il nostro investimento in armi quindi è un problema?
Trump sta convertendo l’America al keynesismo militare. Invece di stimolare la domanda civile e riempire i registri degli ordini aumentando i salari interni, costringerà noi europei ad acquistare armi dagli Usa. Inoltre, il Rearm Europe rischia di essere inutile e troppo costoso. I militari con cui parlo mi dicono che non abbiamo bisogno di sperperare 800 miliardi per organizzare la cooperazione e l’interoperabilità tra gli eserciti europei o per costruire droni e satelliti spia, perché dipendiamo troppo dalla Cia per le informazioni. Una parte di questi 800 miliardi servirà quindi semplicemente ad acquistare armi da Washington, senza garantire in alcun modo l’autonomia europea, poiché gli Stati Uniti continuano a controllare le armi che producono, anche dopo averle vendute. Aggiungo che la militarizzazione della società non è mai andata d’accordo con la democrazia. Certo, dobbiamo proteggerci dalla Russia, ma questo non significa che dobbiamo sacrificare scuole e ospedali per costruire caserme e fabbriche di armi.
In questo quadro di disuguaglianze e divisioni, l’intelligenza artificiale che ruolo può giocare?
L’Ia crea innanzitutto un problema ecologico, perché per funzionare ha bisogno di un’enorme quantità di acqua ed energia. Per questo credo che, per esempio, nel 2040 non sarà fisicamente possibile avere l’IA a disposizione di tutti allo stesso modo e dunque si creerà un’élite che la usa consumando risorse, mentre magari in Calabria o in Puglia la gente rimarrà senza acqua potabile. Questa sarebbe un’esplosione delle disuguaglianze. Ma c’è anche il rischio che questa élite finisca per far fare tutto alla macchina e quindi si instupidisca a causa dell’intelligenza artificiale.
Oggi vediamo già (o ancora) un enorme divario nelle nostre società, che è quello dei redditi: questo erode la fiducia nelle istituzioni democratiche?
Sì. Una grande parte della società deve rispettare le leggi e pagare più tasse e un’altra piccola parte può fare quello che vuole e non pagare tante imposte, senza conseguenze: vedere questo fa perdere fiducia nelle istituzioni e voglia di andare a votare. In Francia, per esempio, per la prima volta possiamo vedere un ex presidente, Nicolas Sarkozy, condannato a cinque anni di reclusione per associazione a delinquere, ma si sapeva da anni che fosse una figura controversa. Essere tutti uguali di fronte alla legge è uno dei pilastri del contratto sociale, insieme all’autonomia della politica e alla proprietà privata: la proprietà privata infatti è positiva quando è limitata dal bene comune, ma non quando è assolutizzata come oggi, dove tutto, persino l’acqua e il corpo ad esempio, può essere privatizzato. La caduta di questi tre pilastri dell’Illuminismo del XVIII secolo ha distrutto il legame sociale e favorito le destre estreme, che dicono di dare soluzioni a queste sofferenze.
In che senso non c’è autonomia politica?
Si è persa a causa della mancanza di uno spazio comune di confronto: i social network di proprietà delle Big Tech californiane non favoriscono la creazione di uno spazio di discernimento democratico, ma piuttosto la tribalizzazione delle nostre società. La seconda causa è lo strapotere dei mercati finanziari che piegano le decisioni politiche ai loro interessi. Il divieto imposto alla Banca centrale europea di finanziare direttamente gli Stati, li costringe a finanziarsi sui mercati e conferisce a questi ultimi un potere antidemocratico esorbitante. Ci sono fortunatamente due modi semplici per sfuggire a questa situazione: emettere eurobond come abbiamo fatto durante la pandemia per impedire ai mercati di speculare contro questo o quel Paese; continuare con l’espediente messo in atto da Mario Draghi quando era alla guida della Bce, con Francoforte che riacquistava sistematicamente i debiti europei dalle nostre banche commerciali nazionali. Ciò consentiva di aggirare i mercati internazionali ed era un buon affare per le nostre banche. Non c’è motivo di smettere.
Con quali politiche, dunque, potremmo aiutare la democrazia?
Ci sono tante cose che si possono fare. Decidere per esempio che i beni comuni – come acqua, energia e sanità – non possono essere privatizzati. È tempo di rimettere in pista anche il progetto che non è stato realizzato dal team Delors negli anni ‘90, quello di una Federazione europea. È ciò che la conferenza dei vescovi europei ha auspicato. Naturalmente, però, una volta costruita una Federazione europea, dovremo abbandonare il mito dell’indipendenza della Bce e sottoporla alla politica di un governo federale europeo democraticamente eletto. Bisogna superare anche il diritto di veto per un solo voto perché l’unanimità ci paralizza, come Draghi ha affermato con forza. Oggi, ovviamente, tutto questo sembra impossibile, date le crescenti divergenze tra gli europei a causa della forza centrifuga dell’euro, ma non possiamo più contare sulla Nato, ovvero gli Stati Uniti, per garantire la nostra sicurezza. Dobbiamo quindi far crescere l’Unione europea a livello politico, partendo dal cuore.
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