sabato 11 marzo 2023
La storia delle cicliste rifugiate in Italia: in patria il ciclismo femminile era vietato, ora aspirano a diventare campionesse
Le cicliste afghane

Le cicliste afghane - Ufficio stampa Road to equality

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Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire danno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

Yulduz Hashimi, 22 anni, uzbeka, è originaria di un villaggio dell'Afghanistan, al confine con l'Uzbekistan. È arrivata in Italia assieme alla sorella Fariba, e a Nooria, Zahra e Arezo, il 27 agosto 2021 grazie all'associazione sportiva dilettantistica Road To Equality, fondata e presieduta dalla ciclista Alessandra Cappellotto, vicentina, prima azzurra, nel 1997, a vincere un titolo mondiale su strada, fondatrice, nel 2017, anche del primo Sindacato mondiale delle cicliste professioniste (CPA Woman).

«L'associazione - spiega - è nata per supportare le atlete in Paesi dove per le donne praticare il ciclismo e, più in generale, uno sport, non è facile. Mi contattavano marocchine, nigeriane, ivoriane, algerine. In Afghanistan, due anni fa, proprio nei giorni di marzo dedicati alla donna, avevamo aiutato Fazli Ahmad Fazli, presidente di una Federazione ciclistica che contava 220 atlete, ad organizzare una gara femminile a Kabul. Hanno partecipato in 56, sono state ostacolate, anche prese a sassate, ma la gara si è svolta. È stata l'ultima possibilità di praticare sport, perché pochi giorni dopo, si sono reinsediati i talebani, che hanno ripristinato il divieto del ciclismo femminile. Ma non ci saremmo aspettati che, il 15 agosto 2021, la situazione precipitasse, e quindi di dover aiutare le cicliste afghane ad arrivare in Italia. Per loro era diventato pericolosissimo, i talebani le cercavano casa per casa. Le famiglie hanno dovuto nascondersi».

Una fuga rocambolesca per le ragazze. Una corsa in taxi fino all'aeroporto, imbarcate su un volo italiano, prima militare, poi civile, quindici ore di viaggio, prima di arrivare a Fiumicino, con in mano il numero di Alessandra. Accolte in Veneto e ottenuto lo status di rifugiate, un anno e mezzo dopo le ragazze si dicono ben ambientate, anche grazie al fatto di aver superato l'esame di lingua italiana. «Ma mi è ancora difficile distinguere il maschile dal femminile», dice Yulduz, che, tra le cinque è quella che ha più dimestichezza con l'italiano, e parla anche uzbeko (lingua madre), inglese e persiano, e che aggiunge: «L'Italia rappresenta per noi il luogo della libertà. Possiamo praticare il ciclismo, possiamo scegliere quello che ci piace fare, possiamo andare a scuola».

Yulduz si sta diplomando e, contemporaneamente, lavora in un supermercato. Da poco è arrivato in Italia anche il suo papà. «Sto cercando un appartamento in affitto, così potremo stare insieme. Mamma e gli altri fratelli invece sono rimasti in Afghanistan perché non hanno il passaporto».

La nostalgia è per i familiari lontani e un po', ma solo un po', per il Paese natio. «Con la presenza dei talebani, la situazione per le donne è diventata insopportabile - riprende -, ma non è che prima le cose andassero molto meglio. Quand'ero piccola, vedevo che tutti i maschi andavano in bicicletta, ma nessuna ragazza. Papà diceva che non stava bene. Mi amava, ma è un uomo molto religioso e tradizionalista. Tuttavia, da piccola qualche regola puoi infrangerla. Io e mia sorella giocavamo a pallone. Ad un certo punto, papà venne a dirmi che era venuto il momento di indossare il velo. Avevo otto anni. E, in effetti, era pericoloso uscire senza. Di andare in bici non se ne parlava, però io ogni tanto salivo lo stesso sui pedali, perché la bicicletta mi ha sempre dato un senso di libertà. La situazione è degenerata quando io e mia sorella abbiamo partecipato ad una gara ciclistica. Papà si arrabbiò molto e ci proibì di uscire di casa».

Yulduz non si stupisce del fatto che nel naufragio di Cutro, di fronte alle coste calabresi, ci fossero anche alcuni afghani. «I miei amici e le mie amiche non vedono l'ora di scappare. Ci provano. Alcuni sono partiti per la Turchia per poter poi imbarcarsi. Pur di non restare in Afghanistan, accettano di rischiare la vita in mare. Questa è la miglior dimostrazione di come da noi sia diventato impossibile vivere. Soprattutto, non poter frequentare la scuola è qualcosa di inaccettabile».

Yulduz ha le idee chiare. Si deve vincere nello sport e nella vita. «Voglio diventare infermiera, ma voglio anche vincere la competizione olimpica di Parigi nel 2024. Il mio grande sogno è diventare una campionessa. Nessuna di noi pratica il ciclismo solo come hobby, tutte vogliamo diventare campionesse».

«Quando sono arrivate, siamo dovuti partire dalle basi. Venivano sempre accompagnate quando uscivano in bicicletta. Non avevano mai visto un cartello stradale. Non sapevano che dovevano fermarsi allo stop, come si fa ad attraversare una rotatoria. Adesso si allenano da sole senza problemi. Anche se l'unica professionista è Fariba, mentre le altre sono dilettanti, di progressi ne hanno fatti tantissimi, non solo in bici, anche a livello di emancipazione, lavorano, escono con le amiche, e una di loro è stata ammessa all'università di Camerino», conclude Alessandra.

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