Ue, a un anno dal rapporto Draghi realizzato solo l'11% delle proposte
Progressi solo nelle aree meno divisive, mentre restano indietro il progetto di un'unione dei mercati dei capitali, l'integrazione sul fronte delle tlc, gli investimenti nelle reti elettriche

Produttività, innovazione, crescita: c’è ancora qualcuno che si ricorda delle 400 pagine del rapporto Draghi? Di quella sveglia all’Europa che spronava l’Unione a investimenti aggiuntivi pari a 800 miliardi di euro l’anno anche con titoli comuni, che esortava a rimuovere le barriere all’innovazione e a ridurre l’eccesso di regolamentazione, a superare la cronica frammentazione nazionale rafforzando drasticamente la cooperazione tra Stati, a cominciare dalla difesa? E’ passato esattamente un anno, sembra un secolo. Quando a settembre 2024, Mario Draghi consegnò alla Commissione Europea il suo rapporto sulla competitività, l’aria a Bruxelles era quella delle grandi occasioni. Con 383 raccomandazioni, l’ex presidente della Banca centrale europea e premier italiano avvertiva che senza un aumento di produttività l’Ue non sarebbe mai diventata leader tecnologico, campione climatico né attore indipendente sulla scena globale. Il documento fu accolto come una “road map” per salvare l’Europa: Ursula von der Leyen ne lodò la visione, think tank e analisti lo definirono un punto di svolta. Dodici mesi più tardi, però, il bilancio è assai meno brillante. Secondo l’European Policy Innovation Council, che ha istituito un “Draghi Observatory” per misurare l’attuazione delle proposte, soltanto l’11,2 per cento delle raccomandazioni (43 misure) è stato pienamente realizzato. In parallelo, i dati Eurostat mostrano che nel secondo trimestre del 2025 l’economia statunitense è cresciuta otto volte più rapidamente di quella europea.
Gli avanzamenti nell’attuazione del rapporto Draghi si concentrano nelle aree meno divisive: un programma di debito comune legato alla difesa, alcuni interventi di semplificazione normativa, incentivi a poli industriali per l’intelligenza artificiale e la manifattura green. Per Deutsche Bank, tuttavia, si tratta di misure di portata limitata: nessun “game changer”, nessuna svolta, solo piccoli aggiustamenti. La Commissione difende il proprio operato, citando strumenti come il Competitiveness Compass e il Clean Industrial Deal, ma resta evidente lo scarto tra la portata del rapporto e i passi effettivamente compiuti.
Draghi aveva indicato nell’unione dei mercati dei capitali il perno di un’Europa più competitiva. La Commissione ha rilanciato il progetto con la nuova etichetta di “savings and investments union”, l’unione del risparmio e degli investimenti, ma i punti cruciali – dalla supervisione comune alla convergenza su regole fiscali e fallimentari – restano bloccati dalle resistenze nazionali. Senza questo tassello, difficilmente l’Europa potrà attrarre capitali in misura paragonabile agli Stati Uniti. Il rapporto Draghi stimava inoltre come necessari 500 miliardi di euro di investimenti nelle reti elettriche entro il 2030. Bruxelles ha risposto con un piano per “energia accessibile”, che si traduce per ora in nuovi accordi per l’importazione di combustibili fossili dagli Usa e in promesse di lungo periodo. Ma i costi dell’energia per le imprese restano più alti rispetto ai concorrenti globali e gli obiettivi di decarbonizzazione restano sulla carta.
Nel settore automobilistico è stato avviato un “dialogo strategico” e pubblicato un piano d’azione che riprende alcune raccomandazioni di Draghi, come lo sviluppo della rete di ricarica e la neutralità tecnologica. Tuttavia, oltre a una parziale flessibilità sugli standard emissivi, gli effetti concreti tardano ad arrivare. Sul fronte delle telecomunicazioni, Draghi chiedeva meno operatori e maggiore integrazione europea: una proposta che si è scontrata con la ferma opposizione dei governi, restii a cedere controllo sulle frequenze nazionali.
Sul terreno della difesa, la creazione di un commissario ad hoc rappresenta un segnale politico, ma i poteri di coordinamento rimangono molto limitati. Gli Stati continuano a gestire la partita in ordine sparso, e i colossali investimenti annunciati rischiano di frammentarsi. Più dinamismo si registra in ambito sanitario: la Commissione lavora a un Biotech Act e ha incrementato i fondi per ricerca e innovazione, anche se le cifre restano distanti da quelle statunitensi. L’impegno più visibile è stato forse quello per la semplificazione normativa. Un maxipacchetto ha ridotto gli obblighi di rendicontazione ambientale per molte aziende, suscitando l’approvazione delle associazioni imprenditoriali e le critiche di ambientalisti e opposizioni. Anche qui emerge una scelta politica: meno regole e meno vincoli, ma senza quel salto di investimenti pubblici e privati che Draghi considerava imprescindibile.
Per gli analisti, il contrasto tra l’accoglienza entusiastica del 2024 e i risultati di oggi appare evidente. “Sulla carta tutti dicono di volere un mercato unico più integrato, ma quando la decisione arriva nei governi prevale il no”, ha ammesso il commissario all’Industria Stéphane Séjourné.
In ottobre i leader europei discuteranno ancora di competitività, mercato dei capitali ed euro digitale: il presidente del Consiglio europeo António Costa parla di “momento molto importante”. Parole già ascoltate più volte, mentre la distanza con Stati Uniti e Cina continua ad aumentare. Un anno dopo, il rapporto Draghi resta più un promemoria delle difficoltà europee che un manuale di istruzioni. La visione c’è, le dichiarazioni pure, ma le decisioni concrete si perdono nei corridoi delle capitali. Con l’Europa che, mentre discute, rischia di vedere scivolare ancora più lontano il treno della competitività globale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA





