Tra i 400 migranti isolati a Monastir:
«Noi accolti e mai integrati»

di Francesca Ghirardelli (Monastir, Cagliari)
Gli ospiti del Cas e di un hotspot arrivati in Sardegna dopo rotte diverse: sono l’8% della popolazione. La sindaca Ugas ci ha spiegato la situazione
October 23, 2025
L’ingresso del centro di accoglienza di Monastir, nel Cagliaritano / Ghirardelli
L’ingresso del centro di accoglienza di Monastir, nel Cagliaritano / Ghirardelli
Qualcuno è in bicicletta, altri sono in monopattino, la maggioranza è a piedi. Vanno e vengono tra i capannoni della zona industriale, la statale 131 e i campi. Per raggiungere il primo borgo abitato, quello di Monastir, e un qualsiasi autobus per Cagliari serve un’ora di cammino. Ai margini del territorio comunale, le palazzine che un tempo erano una scuola di polizia penitenziaria ora ospitano un centro di accoglienza straordinaria (Cas) e un hotspot per l’identificazione di chi arriva in maniera irregolare. I richiedenti asilo che incontriamo provengono da Pakistan, Algeria, Tunisia, Egitto e Paesi subsahariani. Hanno percorso rotte migratorie diverse, per ritrovarsi insieme in mezzo al nulla. C’è chi è giunto in barca dall’Algeria sulle coste del sud ovest della Sardegna, ma anche chi, dalla Tunisia, è approdato a Lampedusa e poi è stato trasferito. C’è persino chi ha seguito la rotta balcanica e dal Friuli è stato rimbalzato da una frontiera esterna dell’Ue a un’altra. «Abbiamo passato un mese a Trieste, poi ci hanno portato qui», raccontano Arslan, Sadat e Anwar, ragazzi pachistani ai cancelli del centro. Hanno attraversato Iran, Turchia, Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia, poi il confine italiano nel Nord-Est, per finire in Sardegna.
Chiediamo com’è la struttura all’interno. «Siamo richiedenti asilo, non ci aspettiamo un hotel a cinque stelle. Va bene per il momento, per la situazione», rispondono. All’inizio di ottobre, proprio da Trieste un team della Ong No Name Kitchen e del Consorzio Italiano di Solidarietà è venuto qui per verificare le condizioni delle strutture di accoglienza. «L’iniziativa è partita da Trieste perché negli ultimi mesi circa l’85% dei richiedenti asilo nel capoluogo friulano è stato sistematicamente trasferito in Sardegna», spiega l’antropologa Arianna Locatelli, portavoce del gruppo. «Secondo le testimonianze degli ospiti, il centro di Monastir presenta diverse criticità, la più rilevante delle quali è il sovraffollamento. Questo sembra essere legato a un improprio duplice utilizzo del complesso, che funge da centro di prima accoglienza ma anche da hotspot per i nuovi arrivi sulle coste sarde».
Un documento della Prefettura di Cagliari dell’agosto del 2024 riporta gli estremi del bando di gara per 290 posti del lotto relativo al Cas e per 90 posti dell’hotspot. «Un centro così grande ubicato in una cittadina così piccola, immaginate l’impatto», commenta al telefono la sindaca di Monastir, Paola Ugas. «Quattrocento persone su cinquemila rappresentano l’8% della nostra popolazione. Per raggiungere la cittadina, gli ospiti percorrono vie di campagna poco illuminate, il che è pericoloso per loro ma anche per gli altri che le attraversano. E infatti si sono verificati episodi molto gravi, ragazzi che in incidenti hanno perso la vita». Poi prosegue: «Abbiamo necessità come Comune di dialogare con le istituzioni che gestiscono il centro. Siamo disponibili a un progetto anche di integrazione, però abbiamo bisogno di affiancare chi sovrintende alla situazione, altrimenti, a noi come comunità, il centro continuerà a creare disagi sul fronte della sicurezza e su quello dei servizi, ad esempio della gestione della pulizia del territorio».
Un giovane camerunense che chiede di farsi chiamare Eric è qui da due anni: «Nella struttura c’è di che dormire, ci sono coperte, ma il cibo arriva già avariato, non è più buono da mangiare ed è vietato prepararlo da soli. Non c’è acqua calda e d’inverno bisogna lavarsi con quella fredda». Il giovane Walid, algerino, invece racconta: «Con otto connazionali siamo venuti direttamente dall’Algeria, in gommone. Ci abbiamo impiegato dieci ore» confida. «È un fenomeno costante, ininterrotto, con picchi legati al tempo atmosferico e con una sua contabilità di morti che purtroppo si registra solo a monte, tra le famiglie d’origine che non hanno più notizie dei congiunti» spiega Raffaele Callia, direttore della Caritas diocesana di Iglesias. «Eppure si parla poco degli “harraga” (i migranti irregolari dal Nord Africa) che approdano in Sardegna dall’Algeria. Sulle nostre coste li vediamo dal 2006-2007». Come responsabile anche del Servizio Studi della Caritas regionale, fornisce alcuni dati: «I cittadini non comunitari titolari di permesso di soggiorno sono circa 34mila sull’isola (55.377 gli stranieri totali nelle anagrafi al 1° gennaio). Se invece parliamo di chi è in attesa del riconoscimento di asilo o protezione, i numeri sono contenuti. Erano 2.351 nel 2024, di cui 2.065 nei Cas e 286 nei Sai».
Incontriamo infine Adel, 57 anni. Racconta dei suoi due figli morti in una traversata. Dopo quel lutto, è venuto in Italia. «Sono arrivato in Sardegna due anni fa, in barca dalla Tunisia, da Bizerte. Ci sono volute venti ore». Per problemi di salute, non lavora più. «Qui c’è molta immigrazione, così se lavori ti pagano meno della metà del normale». Del campo non si lamenta, riferisce solo che è capitato che qualcuno dormisse fuori, per mancanza di spazio. «Non possono fare niente con chi viene da Paesi in guerra» conclude. «È diverso per noi tunisini, algerini, marocchini ed egiziani. Di solito vogliono rimandarci a casa».

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