venerdì 20 settembre 2019
Studenti, padri di famiglia che attraversano il traffico delle metropoli per consegnare pizze, hamburger, spaghetti al domicilio. Lavoratori precari in attesa di un inquadramento
Un rider (Ansa)

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«Non si muore per un panino». Era uno slogan dei riders precari in rivolta. Lo scrissero sul pavimento all’ingresso della sede centrale della società spagnola Glovo in viale Monza a Milano, che è anche la capitale italiana della gig economy, e, insieme a Bologna e Torino, quella dei cavalieri metropolitani del food delivery online.

La protesta fu sollevata nel maggio scorso dopo la morte, in una sola settimana, di tre fattorini investiti o aggrediti nelle strade di Barcellona, Parigi e Londra: erano operatori delle multinazionali Deliveroo, Glovo e Ubereats. Consegnavano cibo pronto al domicilio di chi l’aveva ordinato, con un semplice clic su una App dello smartphone. Quelle più popolari in Italia risultano Just Eat con una media di 555mila ricerche al mese, e Deliveroo con 142.500. Ma sono una ventina le società del settore sul mercato. Tanti gli incidenti anche da noi.

Negli Stati Uniti, o meglio in California, dove il fenomeno è nato da circa un decennio, li chiamano “gig workers”. Corrieri che volano: studenti, disoccupati e sottoccupati, spesso stranieri – età media 27 anni – che cercano di tirare su il necessario per campare o mantenere la famiglia. In bicicletta o sullo scooter, sotto il sole o la pioggia, tra le macchine che sfrecciano nel traffico caotico di una città. Sfruttati. Più lavorano e meglio è. All’inizio erano pagati anche solo 2 euro l’ora (e mai più di 10), sottoposti a turni massacranti, soggetti a stringenti controlli e a facile licenziamento. In sella anche la domenica e nei giorni di festa, e per di più selezionati e valutati da un algoritmo che ne stabilisce graduatorie di merito ed efficienza (escludendo le donne).

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Risorse umane gestite da un sistema digitale e, in quanto tale, aleatorio. Perché il datore di lavoro agisce attraverso una piattaforma web e loro vengono assunti – ancora, nonostante le strenue battaglie sindacali e i ricorsi legali – con un semplice contratto co.co.co.. Trattati come autonomi anche se non lo sono. In Italia sarebbero circa 50mila. Forse di più. Entrano ed escono dal sistema, si avvicendano con un “turn over” pazzesco. Diecimila, 12mila quelli in pianta stabile. Il “decreto dignità” varato dall’ex governo gialloverde sembrava l’inizio di una rivoluzione con le sue disposizioni sulla «tutela del lavoro tramite piattaforme digitali», norme che contemplano una retribuzione a metà tra cottimo e paga oraria, l’introduzione di un’assicurazione Inail obbligatoria contro malattia e infortuni e di un sistema di protezione minima in caso cadute dalle due ruote.

Ed è stato costituito anche, presso il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, un “Osservatorio per il monitoraggio e la valutazione delle nuove norme”. Un passo avanti, senz’altro. Grandi speranze si sono accese. Una delusione, però, alla prova dei fatti, dopo soli cinque mesi dall’entrata in vigore del provvedimento: i lavoratori del settore e le organizzazioni sindacali di categoria continuano a chiedere rapporti di lavoro subordinato, più diritti e meno rischi. L’allora ministro competente, Luigi Di Maio, lo aveva promesso, il contratto da dipendenti. Che ancora non c’è. Settimana prossima si discute in Senato una proposta di legge sui rider. Siamo gli ultimi in Europa a non avere le regole per chi porta la pizza o l’hamburger nelle case altrui o negli uffici.

E il numero dei fattorini del cibo a domicilio è in aumento. Il business per le aziende del settore sfiora il miliardo. Mentre resta l’insicurezza per l’ultimo anello della catena produttiva (quello della consegna), mancano regole chiare, appunto, e a quanto sembra i soprusi prendono – stando all’inchiesta aperta dalla magistratura milanese – le odiose forme e modalità del caporalato.

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