sabato 8 agosto 2020
«Prima del caso di Treviso, in cui verificheremo se sono mancati i controlli corretti – spiega la sottosegretaria alla Salute – nel circuito dell’accoglienza avevamo registrato 239 contagi»
La sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa

La sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa - .

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«I numeri dei contagi nei centri di accoglienza per immigrati, anche coi casi di Treviso, sono in linea col resto della popolazione. Non c’è nessun allarme. È vergognoso dare dell’untore agli immigrati».

Lo dice con forza la sottosegretaria alla Salute, Sandra Zampa, sulla base di una ricerca completata nei giorni scorsi che indicava in 239 i casi di Covid-19 riscontrati nell’intero sistema di accoglienza. Ora bisognerà aggiungere quelli dell’ex caserma Serena di Treviso, con 305 immigrati quasi tutti positivi al Covid (per la maggior parte richiedenti asilo e nessuno arrivato di recente in Italia via Lampedusa o dalla tratta balcanica), e soprattutto applicare con rigore le Linee guida per queste realtà e più in generale per i soggetti fragili, come i senza dimora, i Rom e chi vive nei ghetti, approvata dal ministero il 31 luglio, col via libera del Cts.

Si tratta di un documento di 54 pagine elaborato dall’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà. «Per Treviso – aggiunge la Zampa che ha la delega per immigrati, povertà, fragilità – occorrerà capire che è successo. Se non hanno lavorato bene, non hanno controllato». Ma, ripete, «trovo triste umanamente, colpevole politicamente, usare il Covid contro gli immigrati. Lo dico non solo come esponente politica avversaria della Lega, ma anche come sottosegretaria alla Salute, perché la tutela della salute della collettività passa attraverso la tutela di ogni persona a prescindere da razza o religione».

Partiamo dai dati.

I casi di Covid nelle strutture di accoglienza – Cas, Siproimi, Cara, Msna – sono stati 239, distribuiti in 68 strutture, in 8 regioni, 2 in media a provincia. Quasi tutte le strutture con almeno un caso si trovano al Nord. Negli insediamenti informali non ci risultano casi. Non c’è, dunque, differenza con gli italiani, gli immigrati non si ammalano di più o di meno. Non c’è nessuna ragione di preoccupazione. Ora però il caso di Treviso fa emergere qualche falla. La vicenda conferma la necessità e l’urgenza di dare indicazioni stringenti agli operatori e ai migranti affinché siano rispettate norme rigorosissime nelle comunità di accoglienza. È evidente che, proprio come accaduto nelle Rsa, la comunità “chiusa” si può trasformare a velocità grandissima in un focolaio. È come buttare un fiammifero dentro un mucchio di legna.

Le linee guida cosa indicano?

Linee guida erano già state fatte per tutti i gruppi che hanno condizioni di vita comuni e hanno bisogno di tutela proprio per questo. E vale anche per i centri di accoglienza. Ad esempio sottolineando come il sovraffollamento rende questi luoghi più pericolosi.

Ma il documento non si occupa solo di immigrati.

Lo abbiamo allargato anche alle persone con vulnerabilità estrema che hanno bisogno di essere avvicinate con grande attenzione. Non solo per il doveroso rispetto dei diritti umani di ciascuno, ma anche perché è un modo per tutelare insieme a loro tutti quanti.

E in che modo?

Sono persone che rischierebbero di diventare portatori e che non sono in grado di rivolgersi al Sistema sanitario nazionale. Il lockdown ce li ha messi sotto gli occhi. Roma era abitata solo da queste persone completamente abbandonate a se stesse e per fortuna raggiunte dall’aiuto delle associazione di volontariato.

Cosa prevede il documento per loro?

Dovremo fare in modo di raggiungerle, ci dovremo attrezzare più e meglio e lo stiamo già facendo. Soprattutto avvalendoci del Terzo settore che è quello che ha più da dirci, perché è in continuo contatto con loro, e ha elasticità, rapidità, efficacia nel muoversi più del livello istituzionale. Abbiamo aperto un confronto e il documento è suscettibile di modifiche.

Non è un po’ tardi?

Sì, avremmo dovuto pensare prima a rispondere a queste persone. Per il rispetto della loro salute e di quella collettiva. Noi vogliamo che ci sia la massima trasparenza sui dati e al tempo stesso la presa in carico e la certezza che le persone che in qualche modo entreranno in contatto con la popolazione residente in Italia siano non contagiose. Le stesse cautele devono valere per entrambi, è una forma di reciprocità con cui si aumenta la sicurezza.

Intanto i cosiddetti decreti sicurezza stanno facendo finire per strada tante persone.

Più gente è per strada e più c’è pericolo. La salute passa attraverso la prevenzione e il controllo. Più hai cura di loro e più hai cura di tutta la comunità. Più crei invisibili e più produci illegalità e al tempo stesso insicurezza della salute, soprattutto di fronte a una pandemia.

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