mercoledì 12 maggio 2021
Antonio Maira, esponente della "Stidda" di Canicattì, fu condannato a 22 anni. Secondo alcuni "pentiti" fu tra i motivi dell'omicidio del magistrato beatificato domenica scorsa
L'auto del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990

L'auto del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990 - Ansa

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L’anziano mafioso non è mai cambiato. Da più di quaranta anni Antonio Maira è mafioso, esponente della “Stidda” di Canicattì. Condannato nel 1986 a 22 anni e sei mesi per traffico di droga, rapina, possesso di armi. A sostenere l’accusa il quasi coetaneo Rosario Livatino, anche lui di Canicattì. Che pagò con la morte quella accusa, poi accolta con la durissima condanna. Dopo 35 anni il Tribunale di Palermo, su proposta della Sezione misure di prevenzione patrimoniale della Divisione anticrimine della Questura di Agrigento ha sequestrato ad Antonio Maira, 70 anni, e al fratello Giuseppe, cinque appartamenti con relative pertinenze, tre magazzini, 19 rapporti bancari/finanziari e un Suv. Ancora mafiosi e soprattutto usurai. E proprio per usura e estorsione è stato nuovamente condannato lo scorso 22 gennaio a quattro anni e otto mesi. Ora arriva la dura sanzione economica.

Una data scelta non a caso, come si legge nel comunicato della Questura. “Il fatto che si giunga in questo periodo in cui vi è stata la beatificazione del giudice Livatino al sequestro patrimoniale nei confronti di un soggetto che fu affiliato alla “Stidda” ha un alto valore simbolico, specie se trattasi proprio di quell’affiliato nei confronti del quale l’allora Pubblico Ministero ottenne che venisse inflitta la condanna più dura, condanna che insieme a quella degli altri accoliti ne decretarono la barbara uccisione”. Secondo vari collaboratori di giustizia, sottolinea la Questura, Livatino “fu ucciso per mano di “Stiddari” proprio perché aveva inflitto pesanti condanne ad affiliati della “Stidda”, tra cui appunto figurava Maira Antonio”.

Il suo è un curriculum criminale di tutto rispetto. “Personaggio di primo piano nel panorama delinquenziale della provincia agrigentina”, lo definiscono gli investigatori della Polizia. “Mafioso ante litteram, ha infatti militato già negli anni ‘80 nella “Stidda”, clan notoriamente contrapposto a “Cosa Nostra”, potendo la cosca disporre a Canicattì di una nutrita e pericolosa cellula, di cui appunto egli faceva parte”. Proprio quella su cui più volte indagò con successo Livatino. Maira, si legge ancora, “per conto del suo “Paracco”, cioè “Ombrello”, così chiamato in gergo dagli “Stiddari” la frangia territoriale, si occupava del traffico di droga e delle rapine, fece parte di un commando che nel novembre 1983 compì una rapina in un’armeria di Favara, ove furono trafugate diverse armi, altresì di altro gruppo di rapinatori che nello stesso periodo trafugò 27milioni di lire nel corso di un rapina compiuta presso una banca di Palma di Montechiaro, dopo aver immobilizzato la guardia giurata e sottrattagli la pistola”. Proprio per questi reati, su richiesta di Livatino, fu condannato dal Tribunale di Agrigento nel 1986 alla pena della reclusione di anni 22 e mesi 6, poi ridotta in appello a 17 anni e 6 mesi. Fu quello che del gruppo prese la condanna più pesante che scontò fino all'anno 2004. La conferma dell'ottima e coraggiosa inchiesta di Livatino contro i mafiosi del suo paese.

Ma non si è certo fermato. Così tra il 2004 e il 2009 lui e il fratello si sono resi responsabili sempre di usura e estorsione nell’ambito dell’operazione non a caso chiamata “Cappio” per la quale vengono rinviati a giudizio. Nel dicembre 2019 viene nuovamente arrestato nell’inchiesta della Procura di Agrigento, della Squadra Mobile e della Compagnia Carabinieri di Canicattì. A seguito di indagini, suffragate da dichiarazioni di alcune vittime, era emerso come i due fratelli fossero responsabili di attività usuraie nei confronti di piccoli imprenditori del canicattinese in difficoltà, a cui chiedevano tassi d’interesse ammontanti al 120% annuo. Per tali reati i fratelli hanno già subito condanne con giudizio abbreviato, rispettivamente 4 anni Antonio e 5 Giuseppe.

Terminate le indagini, conclusesi con i fermi, “la Squadra Mobile ha passato la palla agli specialisti delle indagini patrimoniali, per cui è costituito uno specifico nucleo nella Divisione Anticrimine della Questura, i quali sono andati a scavare nei flussi finanziari dei due indagati fin dai primi anni 2000, rilevando nette sperequazioni tra le esigue somme di denaro di provenienza lecita gli investimenti immobiliari e mobiliari, individuando abitazioni e botteghe tra Canicattì e Caltanissetta, che sono stati il reimpiego di capitali illeciti, oltre a rapporti bancari su diversi istituti di credito”. E sono scattate le richieste di sequestro oggi confermate dal Tribunale. “La pericolosità” di Maira, si legge nel decreto di sequestro, “si è manifestata a far data dal 1983 e fino al momento del suo ultimo arresto, avvenuto nel 2019”. Livatino lo aveva capito quasi quaranta anni fa, e ha pagato anche per questo.

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