mercoledì 18 aprile 2018
Parla il dottore che ha avuto in cura nelle ultime ore di vita Segen, il giovane eritreo morto di fame il 12 marzo: «Ringraziava l’Italia»
Il luogo dove è stato sepolto Segen

Il luogo dove è stato sepolto Segen

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«Grazie Italia, grazie papà». Sono queste le ultime parole pronunciate da Tesfalidet Tesfom, migrante eritreo poi ribattezzato Segen, il 12 marzo scorso. Mentre Vincenzo Morello, medico delegato di Porto a Pozzallo, cercava di salvargli la vita in tutti i modi. Consumato dalla fame, dalle percosse subite in Libia e dalla tubercolosi, era arrivato sulla nave Proactiva della Ong Open arms, ora libera di salvare altre vite. Quella di Segen, invece, s’è interrotta l’indomani, all’ospedale Maggiore di Modica.

Il medico oggi racconta quelle ultime ore. Il pensiero fisso alle poesie che Segen teneva custodite nel portafoglio. Una sugli uomini «lontani dalla pace, presi da Satana. Che non provano pietà o un po’ di pena». Segen di uomini ne ha conosciuti due tipi: quelli che lo hanno maltrattato sino a provocarne la morte e quelli che si sono adoperati per salvarlo. Quando si è trovato di fronte al medicoVincenzo Morello, a ridosso della costa di Pozzallo, non ha esitato a chiamarlo “papà” in segno di gratitudine. Gli aguzzini che lo avevano ridotto allo stremo potevano essere soltanto un triste ricordo se fosse arrivato qualche giorno prima in Italia. Questo il rammarico principale di Vincenzo, medico in prima linea che di migranti, in quasi 15 anni di attività nel porto del Ragusano, ne ha accolti e curati circa 150mila, recandosi direttamente sui barconi o sulle navi delle Ong. «L’approccio con Segen – racconta – è uno dei momenti che non si dimenticano. Un ragazzo che ho notato subito appena salito a bordo: era in condizioni disperate, molto denutrito, cachettico, fibrillante. L’ho preso di perso per metterlo sulle mie spalle mentre gli chiedevo perché fosse ridotto così». E Segen rispondeva, a Vincenzo: «Papà, la Libia».

«Ho ribadito la mia domanda, chiedendo se fosse in queste condizioni già nel suo Paese e lui replicava così: 'No, Libia, Libia'». Chiaro, dunque, che a ridurlo allo stremo erano stati coloro che avrebbero dovuto, per certi versi, aiutarlo a raggiungere l’Italia. Ma i Segen, continua sottolinea Vincenzo Morello, sono a migliaia. «La sensibilità di Segen - prosegue il medico pozzallese – è quella di tutte queste persone sbarcate che lasciano la loro terra per un futuro migliore. Mostrano subito una grande voglia di rapportarsi con gli altri e sono persone in grado di ricevere e dare un forte abbraccio. Sono in attesa di una nostra accoglienza, questo desiderano. Il ricordo di Segen, dunque, vale per tutte le persone che non ce l’hanno fatta. Lui, comunque, aveva qualcosa in più, basti pensare che quando mi scusavo per il dolore che gli procuravo durante la medicazione mi rispondeva 'No, papà. Grazie, Italia e grazie a te'».

Quando l’ha deposto sulla barella, appena sceso dalla scaletta della nave, il medico racconta d’aver avuto subito una cattiva sensazione: «Certo, non potevo fare a meno di rammaricarmi per non averlo preso in cura qualche giorno prima, forse saremmo riusciti a salvargli la vita. E questa resta una grande amarezza, non solo per lui ma per tutti coloro che non ce l’hanno fatta». Occhi inumiditi, Morello pensa a Papa Francesco e al suo richiamo costante sui migranti: «Chissà che un giorno non possa venire a pregare anche a Pozzallo, terra di accoglienza come Lampedusa e come voleva Giorgio La Pira, che qui nacque».

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