venerdì 15 giugno 2012
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​Già in tempi non sospetti – era il 2007, blog e reti sociali erano ben lontani dalla diffusione attuale – aveva messo in guardia contro le illusorie promesse di libertà e partecipazione del Web 2.0, con il suo Zero Comments. Oggi Geert Lovink, teorico dei nuovi media, fondatore ad Amsterdam dell’Institute for Network Cultures, torna sull’argomento con un volume appena pubblicato da Egea, Ossessioni collettive. Critica dei social media, che ha presentato ieri sera a Milano nell’ambito degli incontri di Meet the Media Guru, alla Mediateca Santa Teresa.Secondo lo studioso olandese siamo ormai entrati in un’«era dell’indifferenza», dove nuovi prodotti e servizi piovono sul mercato a getto continuo senza generare un reale interesse. «C’è una certa stanchezza da parte del pubblico – spiega ad Avvenire –. Oggi siamo al culmine della "febbre" da Web 2.0, con il proliferare di contenuti prodotti dagli utenti e con l’enfasi sul valore sociale dell’informazione. In realtà quello che sembra ancora più evidente oggi è che sono gli scambi autentici fra persone a dare un senso alla Rete: ciò che fanno le macchine, per quanto sofisticato e complesso, da solo non basta. I nostri gesti aggiungono valore, anche economico, ai contenuti on line. Pensiamo ai click, alla creazione di tag e categorie, ai "like". Tutti questi contributi danno vita e interesse alle foto su Flickr o ai video su YouTube, agli aggiornamenti di Facebook o ai tweet».L’invito è dunque a non abbandonarci senza freni alla logica delle macchine, ma a mantenere noi il controllo: «Le reti prive di scopo sono divoratrici di tempo – scrive Lovink – e così veniamo risucchiati sempre più in profondità in una caverna sociale senza sapere cosa stiamo cercando». Chi non sottoscriverebbe questa analisi dopo aver trascorso ore ad aggiornare e a scorrere notifiche di status su Facebook o Twitter? «La Macchina vuole sapere in continuazione cosa sta succedendo, quali scelte operiamo, dove stiamo andando, con chi ci fermiamo a parlare», denuncia ancora Lovink. E tutto ciò naturalmente con un ben preciso obiettivo economico.Un’altra accusa rivolta alle reti sociali è quella di favorire forme di chiusura piuttosto che di apertura: nelle nostre peregrinazioni sui siti "sociali", secondo Lovink, cercheremmo soprattutto persone a noi affini, con gusti e convinzioni simili alle nostre. «Non sono strumenti da temere – conclude lo studioso –, piuttosto dobbiamo chiederci che tipo di vita sociale favoriscono. Perché c’è questa enfasi sugli amici e sui piccoli gruppi? Forse potremmo pensare a forme più aperte in cui si promuovono altri valori come la collaborazione, la discussione e gli incontri inaspettati».
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