giovedì 31 dicembre 2015
Kosovo, Bosnia, Albania, cresce l'influenza dei jihadisti. La polizia di Pristina ha confermato che almeno 120 miliziani hanno fatto ritorno in Kosovo dopo aver combattuto nelle file dei terroristi.
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«Non ho mai visto così tante moschee, tutte nuove e anche molto belle». L’espressione di sorpresa di un profugo yemenita, abituato ai minareti e ai muezzin, spiega bene l’avanzata dell’islam wahhabita nella penisola balcanica, dove i ponteggi intorno ai centri di culto fanno ombra ai villaggi sgarrupati dei poveri contadini. Il “Balkan Caliphate” non è più il trascurabile vaneggiamento di qualche predicatore radicale. Per quanto improbabi-le, l’incubo di un Daesh alla porte d’Europa si materializza ogni volta che un imam in Macedonia o Kosovo viene arrestato. Le autorità, di solito, minimizzano per rassicurare l’opinione pubblica e gli investitori esteri. Ma le operazioni antiterrorismo raccontano un’altra storia.  Baki Keljani, portavoce della polizia di Pristina, ha confermato che sono almeno 120 i jihadisti che hanno fatto ritorno in Kosovo dopo aver combattuto dal 2011 nelle file dello Stato islamico in Siria e Iraq. Che Daesh li abbia lasciati rientrare è più di una notizia. Per l’intelligence questo significa due cose: alcuni sono mercenari che hanno concluso la loro parte di lavoro; ma molti sono ideologizzati e non se ne staranno tutto il giorno a guardare verso la Mecca. Solo nello scorso maggio si è appreso di un ventiquattrenne albanese emigrato in Grecia con moglie e bambino. Rimasto senza lavoro, piuttosto che tornarsene a Tirana ha convogliato la rabbia e si è arruolato in Siria, trascinando con sé la famiglia. Ma la guerra non faceva per lui. Ervin Hasanaj, indicato dalle autorità di Tirana come uno dei 90 jihadisti albanesi identificati come mujaheddin che si sono uniti al Califfato, è stato ucciso l’1 aprile mentre tentava di fuggire dal Daesh. Tornare indietro non si può. A meno di non avere una missione da compiere. La roccaforte dell’integralismo islamico resta Gornja Maoca, villaggio nei pressi di Brcko, nel nord est della Bosnia. Uno dei fondatori della comunità, Nusret Imamovic, due anni fa si è recato in Siria e oggi è uno dei comandanti del Fronte al-Nusra. Tutti i sospetti terroristi arrestati negli ultimi anni abitavano o si recavano spesso a Gornja Maoca. Gran parte dei “pellegrini” sono originari del Sangiaccato, regione della Serbia e del Montenegro. Da lì è transitato anche Bilal Bosnic, noto reclutatore nelle settimane scorse condannato a sette anni di carcere dal tribunale di Sarajevo. Bosnia, Kosovo e regione del Sangiaccato, nel sud della Serbia, registrano la presenza più capillare di comunità integraliste, molte delle quali legate alla corrente wahhabita. Nei villaggi, dove è difficile incontrare una donna, e meno che mai una donna che non sia completamente velata, la shaaria viene tollerata dalle autorità e applicata al chiuso delle case. E proprio dalla Bosnia, all’indomani degli attentati a Parigi, sono partite nuove minacce. I filo Daesh del sito Web in lingua bosniaca “Vijesti ummeta” (Notizie della comunità dei fedeli) hanno minacciano nuovi devastanti attacchi terroristici, come vendetta per i raid contro il Califfato, annunciando altre stragi e «fiumi di sangue»: «Sappiate che stiamo per arrivare, siamo già tra voi». Secondo l’intelligence locale il portale è diretto dal lea- der bosniaco della comunità wahhabita in Austria, Muhamed Porca che a Vienna da diversi anni finanzia con fondi dell’Arabia Saudita i wahhabiti in Bosnia. Altro sostenitore della “web-jihad” balcanica è Bajro Ikanovic. Condannato nel 2007 per aver pianificato attentati terroristici, dopo aver scontato una pena di 4 anni è oggi tra i quadri dirigenti del Daesh in Siria. La presenza di gruppi radicali islamici in Bosnia, dove il 40% dei 3,8 milioni di abitanti sono musulmani - in larga parte seguaci di un islam che non si concede intemperanze - non è un fenomeno recente. Durante la guerra di Bosnia (1992-95) alcune centinaia di volontari arabi e islamici arrivarono nel Paese per combattere a fianco dei musulmani bosniaci. Alla fine del conflitto, con l’inizio della missione di pace Nato guidata nel settore nord di Kosovska Mitrovica (nord del Kosovo) – abitato da popolazione serba cristiana e contrapposto alla parte sud abitata da kosovari di etnia albanese musulmana – sono apparse scritte inneggianti allo stato islamico su edifici e case abitate da serbi. Non sono segnali da trascurare. Sette kosovari di etnia albanese, presunti appartenenti allo stato islamico si trovano attualmente in Macedonia. I sette, tutti latitanti, si troverebbero in villaggi intorno alla capitale. A novembre la polizia di Skopje ha arrestato nove persone con l’accusa di essere membri del Daesh e sono alla ricerca di altri 27 indagati. Sono tutti considerati attivi, ma nessuno di loro risulta partito per le terre del Califfato.
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