giovedì 9 gennaio 2020
Il direttore del Cesi Gabriele Iacovino: «Serve una politica unica, la sola via per misurarsi con le ambizioni russe e turche». «In Medio Oriente una vera escalation bellica non conviene all'Iran»
Il generale Khalifa Haftar a Roma per incontrare il premier Conte

Il generale Khalifa Haftar a Roma per incontrare il premier Conte - Ansa

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La contromossa iraniana all’uccisione del generale Qassem Soleimani non si è fatta attendere. Ieri una pioggia di missili si è abbattuta sulle basi americane in Iraq. In realtà, però, «una vera escalation bellica con gli Stati Uniti non conviene all’Iran, che non possiede né le risorse né i mezzi per un conflitto su larga scala», spiega Gabriele Iacovino, direttore del Centro studi internazionali (Ce.S.I). Che aggiunge: «Il lancio di missili avvenuto in diretta televisiva, per giunta contro basi semi-dismesse, è da leggere in relazione all’opinione pubblica iraniana. Come dire, le istituzioni reagiscono, non stanno a guardare».

Che cosa immaginare per l’immediato futuro?

Sostanzialmente, credo che la strategia iraniana non cambierà. Gli obiettivi rimangono due: ampliare la propria influenza nella regione e cacciare gli americani dall’Iraq, sempre con azioni sotto traccia. A condizione che il successore di Soleimani sia in grado di proseguirne le politiche, mantenendo forti lega- mi con le milizie sciite dell’area. D’altronde, anche le dichiarazioni del ministro degli Esteri Zarif (che ha parlato di «reazione proporzionata », senza paventare ulteriori operazioni, ndr) fanno pensare a una volontà di de-escalation.

Se l’obiettivo della Casa Bianca, come è stato detto, era quello di ottenere un effetto di deterrenza nell’area, però, la mossa non sembra aver avuto successo...

Il termine deterrenza ci riporta indietro a uno scenario da Guerra Fredda, quando la capacità offensiva dei Paesi protagonisti conduceva a una sorta di dialogo. Invece, in questo caso, qualsiasi possibilità di discussione è stata esclusa fin dal principio. Allora, meglio considerare l’azione americana una prova di forza: possiamo colpire in qualsiasi momento, è il messaggio recapitato a Teheran con l’eliminazione del numero uno delle brigate al-Quds. Dietro, c’è una decisione politica consapevole, che si è cercato di ridimensionare attribuendo poi la responsabilità al presidente Donald Trump: non dimentichiamo l’utilizzo da parte americana di un drone per uccidere l’esponente di punta delle forze armate di un altro Paese. Certo, un Paese con cui c’erano forti tensioni, ma non in guerra. I droni solitamente sono stati impiegati in operazioni contro gruppi paramilitari, contro organizzazioni terroristiche, non contro figure istituzionali. Questo, ripeto, è frutto di una scelta consapevole. La valutazione degli effetti è per ora difficile.

Quali i riflessi della crisi mediorientale sulle vicende mediterranee?

Rispondo con un’altra domanda: esiste una strategia statunitense globale? Non sembrerebbe così. Basti pensare allo scenario libico e al sostegno di Washington prima ad al-Sarraj (leader del Governo di accordo nazionale, Gna) e poi al generale Khalifa Haftar. Ecco, per gli interessi italiani ed europei direi che l’assenza di una strategia americana è negativa. Speriamo però che proprio questa mancanza americana convinca i Paesi membri dell’Unione a darsi una politica estera unica e coordinata, la sola via per potersi misurare con le ambizioni russe e turche.

Quanto le dinamiche interne statunitensi stanno orientando l’operato dell’Amministrazione Trump?

Indubbiamente la questione impeachment ha un riflesso, ma non c’è solo questo. Io direi che la politica estera americana in questo momento è altamente ideologica, come ad esempio sotto Bush figlio. L’Iran ha condotto una politica di destabilizzazione in tutto il Medio Oriente, è vero, però la battaglia contro Daesh (il sedicente Stato islamico) nella regione l’ha fatta Teheran. Inasprendo lo scontro in questo modo, Washington ha tagliato le gambe a tutti coloro che in Iran si fanno promotori di un dialogo con l’Occidente.

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