La morte della ristoratrice di Lodi, criticata ferocemente per un post, ha aperto una riflessione sul ruolo dei social e dei media - Fotogramma
«Sui social ci sentiamo come James Bond, con la licenza di “uccidere”. Manca un’educazione alla responsabilità». Francesco Pira, professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Messina, ha dedicato gran parte delle sue ricerche ai fenomeni di comunicazione online e all’impatto dei nuovi media sulla società. La storia della ristoratrice Giovanna Pedretti, morta suicida pochi giorni fa nel Lodigiano dopo essere stata vittima di feroci critiche sui social, ha reso ancora più urgente un’assenza di riflessione sui rischi della cosiddetta “gogna mediatica”, in particolare per le persone comuni, meno abituate a finire al centro dell’attenzione mediatica. «La bufera social, la cosiddetta shitstorm, fa male a tutti. Un personaggio pubblico sa che fa parte del gioco. La gente comune, invece, una volta che sente lesa la propria dignità fa più fatica a superare questa fase come se nulla fosse. Tutto questo può portare, talvolta, anche a gesti estremi», spiega il sociologo.
La proiezione psicologica
In questa, come in altre vicende simili degli ultimi anni, entrano in gioco alcune caratteristiche umane che nei social hanno proliferato: «Tendiamo a creare un io “iperfluido”, che mostri non chi siamo, ma ciò che può piacere agli altri e crea consenso». Succede così che alcuni post possano portare rapidamente alla ribalta chiunque, per poi gettare le stesse persone, soprattutto le più fragili, nella polvere. Lo stesso meccanismo fomenta anche i contenuti di odio: «Si provoca per creare dibattito, interazioni. Si tira fuori il peggio delle persone, ma la colpa non è delle piattaforme. I media diffondono contenuti negativi perché la gente scrive, legge, interagisce su quelli».
Il web a molti sembra un giardino sicuro, ma poi qualcosa va storto e ci si accorge che non lo è. Il tradimento di cui è stata vittima la ristoratrice è lo stesso che secondo le accuse dei familiari avrebbe travolto l’imprenditore agrigentino Alberto Re, morto lo scorso novembre. Una spietata campagna social, dopo il flop del festival che aveva contribuito a promuovere, l’aveva portato alla disperazione. Il 78enne, responsabile delle pubbliche relazioni della 43esima edizione del Paladino d’Oro Sportfilmfestival, aveva provato a spiegare e rassicurare sui ritorni economici dell’iniziativa, ma poi gli attacchi: «Quanto è costato questo festival? Chi e quanto si è pagato per organizzare questa farsa?», scriveva per esempio un utente su Facebook. Critiche e sfottò che Re, non avvezzo a certe dinamiche, ha preso come attacchi alla sua integrità. Il 22 novembre, dopo aver scritto una lettera ai familiari, si è sparato un colpo di pistola in testa.
A ottobre era toccato invece al giovane tiktoker bolognese, Vincent Plicchi, in arte Inquisitor Ghost. Logorato, sotto il fango che gli hanno buttato addosso gli haters della rete, il 23enne non ha resistito e si è tolto la vita in diretta social. Secondo il padre Matteo, il figlio sarebbe stato spinto al suicidio da accuse infondate, come quella di pedofilia, create e diffuse proprio per infamarlo.
Nei suoi video Plicchi indossava una maschera, ma il travestimento nascondeva un ragazzo comune che si è visto messo alla gogna senza un processo. Al di là delle fragilità della vittima di turno, «il problema è che si scrive senza pensare che dietro il nickname c’è una persona reale», spiega ancora il professore.
Regole, “maschere” e cambiamenti
Le parole del sociologo fanno eco a quelle di Matteo Mariotti, il ventenne amputato di una gamba dopo l’attacco di uno squalo, che solo pochi giorni fa ha subito l’odio sui social. «Mi tocca tanto la storia di questa signora perché anch’io sono andato vicino alla disperazione — ha detto, commentando le accuse verso Pedretti — . Sono cose pesanti, che andrebbero regolate per legge». Secondo Pira, «le leggi non hanno dato i risultati sperati. Serve un cambiamento culturale».
Le persone possono essere spietate. In queste vicende, però, entrano in gioco anche fattori più tecnici, che vanno compresi per non esserne sopraffatti. «Possiamo andare indietro fino al 2016, al caso di Tiziana Cantone. La dinamica è sempre quella — spiega l’esperta di social media Paola Bonini, docente all’Università di Bologna e consulente Rai per i media digitali — . Gli algoritmi assorbono i nostri comportamenti, rilevano gli argomenti che generano interesse. Così un contenuto diventa virale e fa crescere i guadagni che vengono dalle inserzioni pubblicitarie». Cantone si suicidò a 31 anni dopo la diffusione online di un video hot amatoriale e le conseguenti critiche. La vicenda social di Pedretti e il suo debunking, lo smascheramento attraverso le verifiche, probabilmente non meritavano questa visibilità. «Non era una notizia — dice Bonini — . La sua pubblicazione nei media tradizionali ha fatto sentire soltanto alcune persone più legittimate di altre a dare opinioni sbagliate, al limite della violenza».